lunedì, marzo 30, 2009
Le ragioni delle lumache.
Avevo appena scritto per Giustizia Giusta un pezzo in (semiseria) difesa del giudice Edi Pinatto, che aveva impiegato otto anni a depositare la motivazione di una sentenza di cui era estensore, che il Tribunale di Trento sembra abbia preso per buone (e serie) le argomentazioni di quello scherzo, assolvendo, non per scherzo un giudice di Belluno che aveva impiegato un pochetto meno (cinque anni) a depositare una sentenza ed era, perciò, imputato di omissione di atti d’ufficio.
L’articolo di giornale che ne dà notizia si domanda se a Strasburgo, dove la Corte Europea fu inondata di giudizi di risarcimento avanzati contro l’Italia per violazione dell’art. 6 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo (diritto ad una sentenza in tempi ragionevoli) siano a conoscenza di questa decisione tridentina: cinque anni non sono poi “irragionevoli”.
Ora a Strasburgo c’è un po’ meno ressa di ricorsi per quel benedetto art. 6. L’Italia ha promesso di risarcire in forza di una sua legge e attraverso i suoi organi di giustizia, le vittime della lentezza della giustizia medesima.
Così abbiamo la c.d. Legge Pinto che, con applicazione sommaria di parametri di durata, risarcisce i “passeggeri” della lumaca che è la giustizia italiana.
Il sistema della “Legge Pinto” è, a ben vedere, e malgrado gli effetti pratici conseguiti non solo a beneficio di una vita più tranquilla della Corte Europea, un po’ come il gatto che corre dietro alla sua coda.
Per restare in tema di animali, bisogna dire che l’animalismo ha però esteso le sue ali protettive anche a beneficio delle lumache, almeno di quelle togate. Trento lo dimostra.
Ma, per tornare all’interrogativo del giornalista, curioso di sapere se a Strasburgo siano noti atteggiamenti giustificazionisti ed autoassolutori della giustizia italiana impegnata a valutare se stessa, siamo in grado di rispondere che sì, sono noti, almeno se in quel consesso giudiziario europeo si ha buona memoria e si ricordano le difese che l’Italia spiegò avanti ad esso quando Strasburgo giudicava direttamente il lumachismo della giustizia italiana.
C’è da dire, anzitutto, che a difendere l’Italia (come si dice a Strasburgo: non “lo Stato italiano”, ahi noi, ma l’Italia, come per ricordare che di certe cose siamo responsabili un po’ tutti) non va l’Avvocatura dello Stato, ma dei Magistrati in ruolo o fuori ruolo al Ministero.
Accadde così che dovendo rispondere ad un ricorso per la durata irragionevole di un processo amministrativo avanti al T.A.R., in cui il deposito della sentenza era tardato qualcosa come ventitre mesi (lontani dal primato di Pinatto ed anche da quello del giudice di Belluno ma certo mica poco).
L’Italia, anziché difendere sé stessa (popolo, governo, leggi, baracca e burattini) secondo la logica dei suoi “avvocati” (che, ripetiamo, non erano avvocati ma magistrati) cercò di difendere il giudice estensore ritardatario (che era poi una giudice, tale Dott.ssa Bonavia). Dissero i nostri (si fa per dire) patroni che “la collega” era oberata di lavoro (come il giudice di Belluno) non solo, ma aveva una zia.
Una zia vecchia, sola, zitella e malata, cui doveva accudire, non potendo quindi redigere al contempo sentenze.
Alla fine (finalement, in francese) lingua usata dal nostro difensore nazionale, in cui tale espressione, in verità, non significa solo “finalmente”, la suddetta zia era morta e la giudice aveva redatta e depositata la sentenza.
Questo avrebbe dovuto assolvere l’Italia al cospetto dell’Europa e della sua Carta dei diritti dell’Uomo. La mamma è sempre la mamma. La zia quasi.
Il giudice di Belluno non pare (o non risulta a noi) che avesse una zia cui accudire.
O forse l’aveva ed è, proprio per questo, che magari è sfuggito ai giornalisti,che è stato assolto.
Non l’avrà avuta, invece, il giudice Edi Pinatto, che perciò è stato condannato.
Otto anni, del resto sono proprio molti anche per una lunga e penosa malattia di una vecchia signora.
di Mauro Mellini
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