venerdì, agosto 31, 2007

Cassazione: responsabilità autista scuolabus.


Se alla fermata non ci sono i genitori ad aspettare il figlio che torna a casa è compito dell’autista dello scuolabus fare attraversare la strada ai ragazzi o più semplicemente attendere che arrivino. Altrimenti sarà proprio l’autista a rispondere di eventuali incidenti in cui i minori possono rimanere coinvolti.

A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 32822 dell'11 agosto 2007, ha respinto il ricorso di un autista sardo condannato per abbandono di minori dopo aver lasciato scendere dallo scuolabus un bimbo in un'area di parcheggio davanti all'abitazione del piccolo: una volta sceso dal mezzo, il bimbo era stato travolto da un'auto che sopraggiungeva.

I genitori avevano sporto denuncia e il Tribunale di Oristano aveva condannato l'autista (assieme alla donna che guidava la macchina per lesioni colpose) perché incurante del fatto che non c'era nessuno ad aspettarlo. La Corte d'Appello di Cagliari aveva però stravolto la prima sentenza assolvendo la donna "perché il fatto non costituisce reato" e condannato l'autista per lesioni colpose (art. 590 del codice penale), addossandogli la colpa per l'80% e facendo ricadere il restante 20 sul minore.

Così l'imputato ha fatto ricorso in Cassazione sottolinenando come il suo compito lavorativo si esaurisse dopo aver aperto le porte del bus.

I giudici di legittimitàhanno confermato la colpa dell’autista: nella sentenza si legge che "il conducente dello scuolabus ha la custodia dei minori che gli sono affidati per il trasporto e non può pertanto metterne a repentaglio l'incolumità fisica, in spregio alle più elementari regole di prudenza, disinteressandosi di quanto accade, una volta superate le fasi preparatorie e accessorie di salita e discesa dal veicolo, quand'anche, si badi, vi sia stata un'eventuale disposizione dei genitori di lasciare il bambino incustodito in un determinato luogo, in condizioni di pericolo".

La sentenza conferma quindi che, come per gli insegnanti, anche al di fuori della scuola la responsabilità del personale che ha sotto tutela un alunno non si esaurisce con il mero compito da svolgere: solo nel momento in cui l’alunno viene effettivamente affidato a un collega o ai suoi genitori l’operatore può sentirsi del tutto svincolato dalla sua responsabilità di custodia e sorveglianza del minore.

Scandalo "svendopoli": il Guardasigilli minaccia querele.

«Svendopoli» non fa in tempo a esplodere che arriva, immediata, la replica di chi viene tirato in ballo.

Minacciano querela il presidente del Senato Franco Marini (le modalità dell’acquisto dall’Inpdai dei 14 vani ai Parioli per 1 milione di euro sono «notizie false», sibila) e il guardasigilli Clemente Mastella.

Il leader Udeur, secondo il settimanale, nel 2006 avrebbe fatto acquistare per un milione e 452mila euro la sede del giornale del suo partito, in largo Arenula, a una società intestata ai suoi figli, Elio e Pellegrino, grazie alla rinuncia del partito al diritto di prelazione concesso dall’Inail all’Udeur.

I Mastella sono citati nell’inchiesta dell’Espresso anche per l’acquisto dall’Ina di 5 appartamenti a prezzo di favore sul lungotevere Flaminio, nel 2004.

giovedì, agosto 30, 2007

Legge ed ordine.

Va di moda il pugno di ferro, ma manca la mano. Si proclamano legge ed ordine, ma si sono distrutti i tribunali. La giunta fiorentina ha fatto bene a proibire l’accattonaggio ai semafori, essendo nei suoi poteri l’ordinanza e preesistendo il trascurato e negletto reato della relativa inosservanza. Ma vale solo per il principio, il resto sono chiacchiere.


Chi viola l’articolo 650 del codice penale, per essere punito, con il carcere fino a tre mesi, deve prima essere denunciato e processato, potendo ricorrere fino in cassazione. Ciò significa che, con i nostri tempi scandalosi, alla condanna non si arriverà mai in tempo utile, e dove vi si giungesse, ammesso che l’imputato sia ancora rintracciabile, sarebbe puramente teorica.


Se politici e giornalisti non facessero a gara a chi la spara più grossa avrebbero evitato di credere che in quel di Firenze s’è creato il reato di “lavavetraggio” e si sarebbero accorti che stavano discutendo del nulla. E’, poi, ridicolissimo che si dibatta sul presunto rigore, magari sull’inumanità di quell’ordinanza.

Noi, come gli altri Paesi sviluppati, abbiamo convenienza ad importare lavoro. Trattandosi di esseri umani, li accogliamo estendendo loro le garanzie che abbiamo creato per noi.

Non si tratta di lacrimevoli carità, ma di reciproca convenienza. Naturalmente, a casa nostra valgono le nostre regole, che per la gran parte sono comuni a tutto il mondo civile. Chi le viola merita l’espulsione o la galera, salvo il fatto che la nostra giustizia fa pena ed è una pacchia per i criminali, sia autoctoni che stranieri. Inumano, invece, è far entrare clandestini lasciandoli nelle mani delle cosche che li spingono a delinquere, prostituirsi, accattonare. Bisogna avere una coscienza assai elastica per salvarsela allungando un’elemosina.

Tollerare quest’andazzo, inoltre, fa crescere sentimenti di xenofobia che sono estranei alla cultura italiana, ma l’inevitabile prodotto dei disagi e dei pericoli che pesano sui più svantaggiati e sulle periferie.

Inutile atteggiarsi a sceriffi, specie quando si somiglia al sergente Garcia. Servono leggi rispettabili e flessibili nel campo del lavoro, e serve una giustizia le cui pene siano eque e certe, non spropositate ed inesistenti. Avvertite Veltroni che il governo Prodi viaggia in direzione opposta.

Davide Giacalone

Pubblicato da Libero

La "strana coppia".

mercoledì, agosto 29, 2007

Cassazione: il mobbing non è reato.

Il mobbing non è reato: il lavoratore, per difendersi dalle vessazioni del datore o dei colleghi, può chiedere il risarcimento del danno in un processo civile o fare una denuncia per maltrattamenti in sede penale. In quest’ultimo caso, tuttavia, dovrà provare la reiterazione della persecuzione e della discriminazione, altrimenti niente condanna.

Insomma, nel nostro Codice penale, non esiste una specifica figura incriminatrice per punire il cosiddetto mobbing.

È quanto affermato dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione che, con la sentenza n. 33624/07 di oggi, ha respinto il ricorso della Procura di Santa Maria Capua Vetere e di un insegnante che aveva denunciato il presidente per mobbing contro la sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup.

Sia la professoressa sia la pubblica accusa avevano parlato negli atti processuali di mobbing, figura però assente nel nostro Codice penale.

Infatti, hanno chiarito i giudici di legittimità, «la difficoltà di inquadrare la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al Codice penale questa tipicizzazione, deriva dalla erronea contestazione del reato da parte del pubblico ministero. Infatti, l’atto di incolpazione è assolutamente incapace di descrivere i tratti dell’azione censurata. La condotta di mobbing - spiega ancora il Collegio - suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima sia nell’efficace capacità di mortificare e di isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro».

Al più il preside avrebbe potuto essere condannato per maltrattamenti, ma l’insegnante non è riuscita a provare la continuità nel tempo delle vessazioni subite e la correlazione con la patologia lamentata. Infatti, «la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cosiddetto mobbing è quella descritta dall’articolo 572 c.p. (maltrattamenti, ndr) commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione».

Privilegi e segreti dei magistrati.


Da cosa si distingue una corporazione, come quella in toga dei magistrati della penisola, rispetto ai comuni mortali? Dalla abilità nel mantenere riservati i dati sui privilegi, gli emolumenti e le mille prebende che il potere assegna loro.

Per esempio, chi sa quanto guadagna un singolo giudice Costituzionale e con quale pensione si consola?

E' un vero segreto di Stato che dimostra come la vera casta in Italia siano loro: magistrati. Che siano ordinari, amministrativi o costituzionali cambia solo l'emolumento non certo l'omertà discreta che avvolge il tutto.

Ora un aneddoto che spiega meglio la materia del contendere: c'era una volta un avvocato,Tommaso Palermo, difensore civile di molti magistrati in pensione il quale si illudeva che un giorno o l'altro le quiescenze cosiddette di annata sarebbero state perequate.

E che per questo motivo bombardava ogni giorno che Dio mandava in terra il Ministero del Tesoro, la Ragioneria dello Stato e la Presidenza del Consiglio per sapere con quali decreti certe categorie di magistrati (Corte dei Conti, Consiglio di Stato, Consulta ecc.) ottengono determinati trattamenti. Non ebbe mai risposta.

E nessuno a tutt'oggi sa nulla sul trattamento previsto dalla speciale cassa di previdenza dei magnifici 15 della Consulta, istituita nel 1960 su base volontaria (unico caso nella pubblica amministrazione). Segreto di stato. Altro che Abu Omar.

L'ultima volta che, poco prima di morire, il suddetto avvocato Palermo aveva mandato un telegramma all'ufficio pensioni della Presidenza del Consiglio in via della Stamperia glielo rimandarono indietro con sopra la dicitura "destinatario sconosciuto".

C'è voluto l'ottimo lavoro di Raffele Costa per districare parzialmente il ginepraio dei privilegi della casta in toga.

Così oggi noi sappiamo che al Consiglio di Stato 419 persone costano 130 miliardi di vecchie lire l'anno: il Presidente ha un lordo annuo di 220 mila euro , l'ultimo dei consiglieri quasi 65 mila.

La Corte dei Conti ha a ruolo quasi 550 consiglieri.

L'ultimo della scala gerarchica guadagna seimila euro lordi al mese, il primo quasi 20. Poi ci sono le indennità e i fringe benefits. Spesa globale, dipendenti inclusi, almeno 130 miliardi di rimpiante lire ogni anno.

L' Avvocatura dello Stato ha 780 dipendenti che costano 100 milioni di euro l'anno. Un avvocato generale può arrivare ai 200 mila euro annui, il procuratore di prima nomina a 60 mila.

C'è poi il capitolo Corte Costituzionale, una vera e propria oasi dove si fa a cazzotti per entrare anche come semplice autista visto che lo stipendio lordo iniziale raramente è inferiore ai 3 mila euro al mese a cui va aggiunta una contingenza che i giornalisti semplicemente si sognano.

Per di più lor signori hanno persino i cosiddetti "assegni Befana" ogni sei gennaio, assistenza scolastica, assistenza estiva e invernale per le vacanze dei bimbi, sussidi persino per i furti subiti in casa.

I giudici, sebbene le cifre esatte siano un vero e proprio segreto di Stato, raramente scendono sotto i 250 mila euro lordi annui.

Però poi godono di una serie di privilegi che vanno dall'appartamentino con vista sul Quirinale per i fuori sede, all'automobile con autista a vita, a due assistenti di studio,un segretario particolare e un addetto di segreteria, alla bolletta telefonica a carico della collettività. Che è a vita per gli ex presidenti. Le pensioni per i giudici costituzionali superano i 15 mila euro mesili.

Tutto questo ben di Dio costa altri 80 milioni di euro l'anno allo Stato. Il costo per la collettività degli stipendi dei circa 9 mila magistrati italiani è di più di 1 miliardo di euro .

Circa il 30% superiore a quello che la Francia spende per i loro omologhi di Oltralpe.

Di quella cifra, i magistrati di Cassazione, da soli, ne assorbono poco meno della metà: sono un esercito fatto di generali, circa 770 unità . A essi si aggiungono altre 2500 toghe che prendono lo stesso stipendio grazie alla scellerata legge che fa fare carriera per anzianità invece che per merito.

In media un giudice di Cassazione guadagna più di 150 mila euro l'anno.

Cui si aggiungono diverse indennità di funzione che variano da persona a persona. Per di più le loro retribuzioni sono agganciate a quelle dei parlamentari in un continuo trascinamento reciproco: quando aumentano le une lo fanno anche le altre.

Comunque, secondo i dati ufficiali rilevati dal Csm, su 9246 magistrati italiani, meno di 350 risultano in servizio presso le dodici sezioni civili o penali che compongono la Suprema Corte. Gli altri hanno la qualifica o lo stipendio ma fanno altro. E ringraziano il '68 in toga che si concretizzò nella famosa, anzi famigerata, legge Breganza, quella che abolì il merito per la progressione in carriera. Che però fu varata dieci anni prima di quegli anni che qualcuno si ostina consideare formidabili.

E a proposito di privilegi, benchè non sia mai stata applicata, la norma sulla responsabilità civile dei magistrati (la 177 del 1988 varata sull'onda dell'emozione che suscitò il caso Tortora), le toghe nostrane sono riuscite anche a stipulare un accordo molto vantaggioso con le assicurazioni.

Siglato da una parte dall' ANM e dall'altra dalla BNL Broker Assicurazioni : con soli 138 euro e 60 all’anno, si sono così messi al riparo dalla possibilità di dover risarcire di tasca propria l’eventuale vittima di errori giudiziari.

Eventualità invero remota visto che la legge voluta da Vassalli e Craxi ( cui gli interessati dimenticarono di attestare eterna gratitudine) mette a carico della collettività l'eventuale errore per colpa grave del singolo. Ma nella vita non si sa mai.

Naturalmente a simili trattamenti non corrispondono, come è sotto gli occhi di tutti, risultati di eccellenza.

Un rapporto del Consiglio d’Europa , a inizio 2005, ha assegnato le “pagelle” alle toghe dei diversi stati membri.

I dati che sono fermi al 2002, ma dopo è andata anche peggio, parlano di uno stipendio dei giudici italiani superiore del 30 per cento a quello dei colleghi francesi. La nostra spesa pubblica per il pianeta giustizia risulta fra le più elevate, benché altri Paesi europei abbiano tempi molto meno biblici per la definizione di cause e processi: Svezia, Germania e Olanda svolgono ad esempio le cause civili in meno di metà tempo di quanto necessario in Italia per procedimenti di analogo impegno.

Molti scaricano la colpa su un'altra categoria super privilegiata di questa casta fra le caste: i magistrati fuori ruolo. Nel 2004 il loro numero era di ben 728, mentre altri 1.182 risultavano assegnati ad incarichi extragiudiziari.

E qui il privilegio si incrocia con il potere politico che il partito dei giudici sta assumendo nel tempo: questi fuori ruolo spesso sono in uffici legislativi e scrivono quindi le leggi che poi altri colleghi applicano dopo che il Parlamento le ha supinamente approvate. Altri sono consiglieri del governo, e quindi condizionano il potere esecutivo e altri ancora, per la precisione due per ciascuno membro della Consulta, di fatto scrivono le sentenze della Corte costituzionale facendo il lavoro sporco di ricerca giurisprudenziale e orientandola secondo i desiderata degli interna corporis.

Fra l'altro i magistrati ordinari distaccati presso la Corte Costituzionale oltre ad avere lo stipendio da consiglieri di Cassazione godono di altre indennità e privilegi. Qualche anno fa destò un certo scandalo alla Consulta quando si seppe che alcuni di loro prendevano indennità altissime di fuori sede pur vivendo a Roma, ma conservando la residenza fuori dalla capitale. Nessuno li potè citare per truffa e neanche la corte dei conti potè chiedere i danni in quanto la Corte costituzionale ha una propria autonomia amministrativa nell'ambito della quale può farte quello che crede. Sempre a spese del contribuente.

Last but not least, i concorsi per diventare magistrati negli ultimi venti anni hanno registrato scandali a non finire finiti sotto la lente, in questo caso meno severa, di altri magistrati.

Il più famoso fu quello del 1991 denunciato da due esclusi, l'avvocato Pier Paolo Berardi di Asti e Teresa Calbi di Civitavecchia. A sua volta figlia di un giudice di Cassazione. Venne fuori che si correggevano elaborati in meno di tre minuti e che alcuni presentavano evidenti segni di riconoscimento mentre altri non erano neanche stati corretti benchè scartati.

Tra gli elaborati finiti sotto inchiesta anche quello di un ex giudice costituzionale e di un magistrato che divenne segretario generale del Csm.

di Dimitri Buffa

Provvedimenti per i lavavetri: la competenza è del Questore.

Con una sentenza del 2002, la Corte di Cassazione ha già stabilito che spetta al Questore - e non al sindaco, come nel caso di Firenze - emettere il provvedimento per vietare ad un lavavetri di continuare la sua attività.

A decidere in questo senso era stata infatti la prima sezione penale che aveva annullato senza rinvio "perchè il fatto non sussiste" la condanna al pagamento di una ammenda di centomila lire inflitta dal tribunale di Trieste a un cittadino croato di 62 anni, Mirko Majstorovic, per non aver osservato l’ordinanza del sindaco che gli imponeva di astenersi dall’attività.

All’uomo si contestava la violazione dell’art. 650 del codice penale, lo stesso articolo sul quale si basa l’ordinanza del sindaco di Firenze che prevede la denuncia penale e fino a tre mesi di arresto per i lavavetri sorpresi in città.

sabato, agosto 25, 2007

A settembre ci sarà la "Bot-Tax"?

Riflessioni tristi ed amare sull'utilità dello sciopero degli avvocati.


Con malcelato orgoglio e qualche nota di trionfalismo (che pare non guastare mai), commentavo in questi giorni, con un caro amico (estraneo all'ambiente forense) la nobile scelta di noi avvocati penalisti, che scioperiamo dal 16 al 21 Luglio, nonché l'agitazione dell'OUA dal 17 al 19 Luglio.

E' bastata una lapidaria osservazione del mio interlocutore, per mandare in crisi le mie certezze (o pseudo tali) e riportarmi pesantemente con i piedi per terra.

Mi è stato, infatti, eccepito che si tratta di uno sciopero inutile e sterile (visto che il Parlamento ha già deciso in ordine alla legislazione concernente l'ordinamento giudiziario e che non muterà certo rientamento), che si tratta di uno sciopero di facciata (è opinione diffusa, quella – peraltro insipientemente fatta propria dal Ministro Bersani l'anno scorso – che gli avvocati chiusi nei loro studi guadagnino di più) o che, al massimo, si tratta di una ghiotta occasione per gli avvocati di anticipare le ferie.

A nulla, dunque, sono valse le mie indignate proteste, tese a dimostrare che lo sciopero (o meglio l'astensione dalle udienze) comporta una perdita economica che in un periodo dell'anno come questo è particolarmente rilevante, atteso che, oltre alla spese correnti (dipendenti, locazioni, utenze, etc.), si aggiungono l'IRPEF, l'IVA mensile, la Cassa Forense et similia.

Queste mie osservazioni sono state, infatti, illico et immediate vanificate e si sono, pertanto, liquefatte, come neve al sole, al solo cospetto della ferma e chiara dimostrazione della difficoltà per gli utenti di capir esattamente chi siamo, dove andiamo e, sopratutto, cosa vogliamo.

Ed allora, non potendo non tenere in conto osservazioni del genere, è stato gioco forza tentare un serio bilancio dell'uso dello strumento dell'astensione dalle udienze, reiteratamente invocato ed applicato in epoca recente.

Credo che, oggettivamente, balzi all'occhio la considerazione che i risultati ottenuti, con tale forma di agitazione, siano stati assolutamente inadeguati alla mole dgli sforzi svolti, perché a ben guardare, non abbiamo ottenuto concretamente nulla di significativo.

L'anno scorso, addirittura, si è giunti al parrossismo che il Ministro Bersani, che ha ricevuto più volte i taxisti, che ha dialogato con i farmacisti ha, però, fermamente negato ogni possibilità di colloqui con i reietti avvocati.

Verrebbe facile da domandare a quei giovani leoni che l'anno scorso plaudivano (in ottima fede, ma con toni enfatici) alle liberalizzazioni (sopratutto forensi e tariffarie), se in forza delle stesse, possano affermare onestamente di avere goduto di quelle tanto vaticinate opportunità professionali che richiedevano o se, in realtà, si sia trattata di null'altro che pura e vuota demagogia di bassa lega da parte di un governo che dimostra oggettivamente di odiare gli avvocati.

Ed allora dobbiamo fare un'evidente autocritica e domandarci quali siano stati gli errori metodologici commessi?

1 - Un gravissimo deficit di comunicazione al pubblico.

Abbiamo preferito apparire come carbonari, senza rivendicare l'orgoglio e la fondatezza fattuale e giuridica delle nostre posizioni.

Abbiamo preferito assumere i tanti magnificati bassi profili, che sono certamente politicamente corretti, ma che non servono altro che a farsi impallinare dal cecchino in mezzo al guado.

Le varie organizzazioni di categoria e sindacali non hanno mai preso una iniziativa forte di comunicazione al pubblico, cioé a coloro che per primi avrebbero dovuto essere posti al corrente dei motivi del c.d. sciopero.

Una pagina su un giornale (la comprano società di infortunistica stradale), uno spot sulle radio e TV, una presenza a trasmissioni radiotelevisive che non appaia improntata al ruolo di convitati di pietra: queste sono le strade concrete.

Va ricordato, proprio su questo punto, che le presenze in Tv o radio di dirigenti di organizzazioni associative (UCPI od OUA) sono state abilmente circoscritte dai vari giornalisti democratici conduttori i programmi a mere umilianti “comparsate”.

Nel contesto di trasmissioni della durata di due o tre ore [di vuote chiacchere], sono stati concessi ai nostri rappresentanti (che, invece, avrebbero dovuto andarsene protestando molto prima senza attendere le briciole concesse) soli pochi secondi sfumati sui titoli di coda.

Abbiamo accettato, quindi, un'elemosina mediatica, dimostrandoci debolissimi e fornendo un'immagine perdente.

2 - L'abuso dello strumento dell'astensione dalle udienze.

Si tratta di una forma di contestazione di difficile comprensione da parte degli utenti ed al contempo di facile strumentalizzazione da parte dei detrattori, in primis i magistrati, in secundis il partito degli antiavvocati.

Essa è risultata sterile perché – come detto – si deve ammettere che i risultati ottenuti sono indubbiamente minimi rispetto all'impregno profuso.

Giovi dire, quindi, che, paradossalmente, coloro che traggono un maggior vantaggio dagli scioperi attuali sono proprio coloro che più di ogni altro avversano l'iniziativa e la biasimano, cioè i magistrati ed altri operatori del diritto.

Questa categoria, in principalità, infatti, utilizza i periodi di sospensione delle udienza, chi per smaltire l'arretrato, chi per trattare i fascicoli lasciati da parte, chi per scrivere sentenze, i cui termini di deposito magari sono già scaduti, etc. .

In pratica, dunque, la protesta degli avvocati è sovente (per non dire sempre) inattesa panacea per chi, invece, sul piano formale (solo formale) depreca simile atteggiamento e lo connota, ipocritamente, quale principale atto di dissesto della giustizia italiana.

Giovi poi osservare amaramente, inoltre, una ulteriore verità assoluta e cioè che lo sciopero (o meglio la proclamazione di uno sciopero) presenta ben diverso peso specifico a seconda della parte che minacci l'astensione.

E' stata, infatti, sufficiente la dichiarazione dell'ANM di voler scioperare il 20.07, per convincere il coraggiosissimo Parlamento a legiferare nel senso gradito alla magistratura.

I nostri scioperi sono rimasti inascoltati e l'espulsione della categoria dai ruoli di controllo dei Consigli giudiziari ne è sintomatica e significativa manifestazione.

3 – La mancanza di una strategia di fondo che produca opzioni e forme di protesta alternative all'astensione delle udienze.

Penso a forme di applicazione rigida e rigorosa di norme processuali sia civili che penali, le quali, se effettivamente osservate, comporterebbero evidenti rallentamenti nell'iter di sviluppo dei procedimenti di cognizione.

Non dimentichiamoci, infatti, che sistematicamente (spesso e volentieri) i magistrati chiedono agli avvocati penalisti di manifestare la loro collaborazione, accedendo a soluzioni quali la manutenzione degli atti compiuti da altro giudice, in caso di mutamento del giudicante, l'accettazione di orari assurdi per la celebrazione di processi solo per segnalare gli esempi penalistici di maggiore rilievo.

Credo, però, che anche i colleghi civilisti potrebbero indicare altri pregnanti esempi, il primo dei quali è quello per cui le udienze di istruzione probatoria vengono delegate, [spesso parrebbe immotivatamente], dal G.I. ai G.O.T., con buon pace del principio per il quale il giudice dovrebbe essere il dominus completo del processo.

Il secondo sempre in tema è quella per cui mi si dice che spesso le prove sono svolte direttamente dagli avvocati, senza la presenza fisica del giudice, il quale prende atto dello svolgimento delle stesse.

E qui si innesta un ulteriore irrisolto problema: quello della presenza degli avvocati in Parlamento.

Non voglio entrare in polemiche politico – partitocratiche, del tutto inutili ed a me estranee.

Ciò che mi domando è come persone che prima di essere politici hanno svolto la professione forense, che, dunque, si presume conoscano i problemi del pianeta giustizia, possano:

1. accettare un programma politico squilibratamente attestato su posizioni favorevoli smaccatamente ad un potere dello stato;

2. votare norme che ghettizzano l'avvocatura e che liberano la magistratura dal fastidioso lacciuolo dato dal seppur minimo controllo che veniva svolto all'interno di un organo composto come quello dei Consigli giudiziari.

Questa è una scelta inaccettabile, che viola l'essenza della funzione di salvaguardia cui deve tendere la classe forense.

I soliti soloni parleranno di visione corporativa e ricorreranno ad altre amenità che, invece, ci si gyarda bene dall'invocare quando ex magistrati come Finocchiaro, Di Pietro o D'Ambrosio, intervengono a tutela delle posizioni dei loro ex colleghi.

Nel nostro paese, però, si fa l'abitudine a tutto e, quindi, dopo qualche giorni di sfoghi anche duri, tutto è andato nel dimenticatoio: i giudici rimangono intangibili nella loro torre d'avorio ed al riparo da quelle pericolose contaminazioni che il controllo, che gli avvocati avrebbero pouto svolgere, avrebbe potuto comportare.

Ci si abitua, dunque anche alla stranezza che senatori a vita votino, taluni probabilmente senza conoscere neppure de relata il problema (il solo Sen. Scalfaro ha sempre orgogliosamente rivendicato la sua militanza di PM) una riforma inammissibile, ma non ci si può e non ci si deve abituare a quella vacue giustificazioni di inerzia che possono essere accampata dagli avvocati.

Siamo una categoria che si incendia e poi si assopisce, che non incide e non ha alcun peso specifico.

E' veramente comico ed irreale chi parla, sulle pagine dei giornali di potente lobby degli avvocati; ma se contiamo meno di qualsiasi altra categoria lavorativa (taxisti docet!).

Non possiamo continuare ad agonizzare in questo modo.

I Colleghi che hanno ritenuto di assumere incarichi di rappresentanza devono essere strumenti per un nuovo concreto rinascimento, per un vero colpo di reni, che deve suscitare il recupero dell'orgoglio da parte della categoria.

E' vero che ricette che risolvano i problemi d'acchito non esistono, ma è ora di scendere nel concreto.

Se anche questa opportunità verrà lasciata seccare – come una pianta non annaffiata – allora si dovrà concludere tristemente che ha, purtroppo, ragione il mio amico, la colpa è sempre e sarà sempre e comunque dell'avvocato, ma voglia Dio che non sia così.

Avv. Carlo Alberto Zaina

tratto dal sito www.altalex.com

Tribunale di Milano "a luci rosse".



Sarà che i tempi della giustizia sono quelli che sono, e il tempo - quando c’è da aspettare - bisogna pur impiegarlo in qualche maniera. Sarà il gusto del proibito, del divieto da infrangere nel santuario di leggi e codici.

O forse è il luogo, quel labirinto di corridoi, angoli ciechi e anfratti, che moltiplica le occasioni per l’anarchia ormonale.

Quale che sia la causa, finisce che in tribunale a Milano - austero palazzo di marmi, burocrazia e sentenze - ci scappino spesso scene da quartiere proibito, lanterne rosse e sexy shop.

L’ultima, quella di due avvocatesse «hard». A distanza di una manciata di giorni l’una dall’altra, «fotografate» dagli scanner della vigilanza con un inconsueto corredo forense chiuso in borsa: fascicoli, ricorsi, agende. E due vibratori.

Qualcosa di personale, stavolta, ma a Palazzo ne raccontano di ogni. C’è chi tra quegli uffici ha trovato moglie e marito, chi s’è fatto l’amante, chi - nelle lunghe giornate - trova il tempo per una scappatella in qualche recesso nascosto dell’edificio (e l’edificio ne è pieno).

Magistrati che finiscono per sposare magistrati distanti due uffici, cancellieri con cancellieri, polizia giudiziaria con polizia giudiziaria, avvocati, personale amministrativo e umanità varia.

Tutti rinchiusi nello stesso groviglio di scale bagni ascensori e stanzini, tutto il giorno e tutti i giorni. Sempre le stesse facce che tornano, sempre quelle. E il Palazzo che fornisce l’occasione. Il resto è un libero scambio di estasi e pecoreccio.

Ed è così che poteva esistere una «stanza del sesso», bugigattolo spoglio con vista su Milano ricavato in fondo a una scala al settimo piano del tribunale, lontano da occhi e orecchie indiscrete, dove gli amanti andavano a consumare prima che un giudice ne scoprisse gli intrighi - scatenando le ire del presidente dei gip - e una mano abbondante di vernice cancellasse dalle pareti le memorie scritte dagli habitué dell’alcova. Da allora, niente più stanza e niente più sesso. Almeno, in fondo alla scala del settimo piano.

Tra realtà e leggende metropolitane, quella delle due avvocatesse a luci rosse è solo l’ultima della vicende poco ortodosse per il palazzo di giustizia. Niente di grave, e tutto molto umano. Lì, davanti allo scanner, hanno sorriso i vigilantes e sono arrossite le due donne.

Imbarazzata visione a raggi x, la sagoma inequivocabile che consegna alla guardia giurata un memorabile imprevisto. Altro che cellulari, chiavi, portaocchiali, penne stilografiche come ne passano a centinaia ogni giorno sotto le macchine della sicurezza.

E sfortunate le due, che se non si fossero scordate la tessera di avvocato non sarebbero state costrette a passare sotto le forche di röntgen, con la privacy che va a farsi benedire. Proprio quel giorno. Sempre che quella non fosse la prima volta.

Emergenza incendi: intervista a Giuliano Vassalli.

«I magistrati hanno tutti gli strumenti per arrestare e tenere in galera gli incendiari che sconvolgono l’Italia. Ma, troppo spesso, non lo fanno e questo è di una gravità inaudita ».

L’atto d’accusa è di Giuliano Vassalli, grande penalista, già ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale. Che, di fronte ai roghi assassini, invoca «giusta severità».

E punta il dito anche contro il «regionalismo eccessivo», che comporta una frammentazione eccessiva di competenze come quelle dell’agricoltura e della Protezione civile, riducendo lo Stato a «funzioni sussidiarie».

Professore, l’allarme di questi giorni porta alcuni a chiedersi se ci sia bisogno di nuove fattispecie di reato per combattere efficacemente quello che è stato definito “terrorismo ambientale”. Lei che cosa ne pensa?

«La verità è che, in queste circostanze, emergono i difetti della nostra magistratura. Le pene previste dal codice sono alte e gli strumenti necessari ci sono, perché non esiste solo la fattispecie dell’incendio doloso ma quella specifica configurata dall’articolo 423 bis di incendio boschivo. Ci sono tutti gli spazi per arrestare e tenere in prigione i sospetti piromani, nella fase istruttoria. Invece, molti magistrati purtroppo non si conformano a questa linea, disponendo la carcerazione preventiva. Così, alcuni colpevoli vengono presi e subito dopo rilasciati: è una cosa pazzesca!».

Perché? I magistrati non sono abbastanza preparati in materia? Così sembra pensarla il ministro per le Politiche agricole Pecoraro Scanio, che ha chiesto al Csm di organizzare corsi di formazione per le toghe su questi reati.

«Ma mi faccia il piacere! Non c’è alcun bisogno di corsi di formazione specifica, non siamo mica di fronte a reati particolarmente complessi: ce ne sono altri che lo sono molto di più. Certo, abbiamo ministri di competenza molto relativa! Qui si tratta solo di applicare le leggi, che offrono tutte le possibilità necessarie. Se invece aspettiamo i corsi di formazione...».

Da Napolitano a Prodi, da Mastella a Pecoraro Scanio vengono appelli ad essere inflessibili, alla “tolleranza zero”.

«Ci vuole giusta severità, nulla di più. I presupposti ci sono. Ma se neppure quando fermano uno, com’è successo, con gli inneschi addosso, lo tengono dietro le sbarre, dove arriviamo? C’è l’arresto in flagranza ma non bisogna sempre aspettare di fermare il colpevole mentre accende il fuoco. Queste sono sottigliezze».

Le condanne, per incendi boschivi, in questi anni sono state pochissime in Italia.

«Mi rendo conto della difficoltà delle indagini e di reperire le prove. Ma proprio per questo insisto: di fronte a fatti così gravi, la carcerazione preventiva, senza sconti, ha anche unafunzione deterrente».

Parlare di “terrorismo ambientale” è corretto?

«Ci ho pensato, ma vedo che spesso ad appiccare gli incendi sono contadini, pastori, allevatori che hanno moventi mostruosamente egoistici e antisociali e difendono interessi individuali, però non hanno l’intenzione di far male agli altri. Non per questo sono meno pericolosi».

Mastella dice che i piromani sono come i terroristi e non si può sapere dove appiccheranno gli incendi. Per la prevenzione, si può fare di più?

«La prevenzione è difficile, sì. In questi giorni mi sono chiesto quanta colpa ha la Protezione civile. Ma poi ho letto che il 70 per cento degli addetti alla Protezione civile della Sicilia mentre esplodevano gli incendi era in ferie forzate. Si rende conto? Erano state imposte per risparmiare qualche soldo. Grandi responsabilità risiedono in questo regionalismo eccessivo, contro cui non si riesce più a far niente. Manca il potere centrale dello Stato. Ma ci ricordiamo che i radicali vollero un referendum per abolire il ministero dell’Agricoltura e vinsero la loro battaglia? Ci sono volute, poi, varie acrobazie per ricostituirlo. Ma questo vuol dire che siamo di fronte ad un’abdicazione permanente dei poteri dello Stato e alcune funzioni fondamentali sono nelle mani delle regioni: agricoltura, Protezione civile. Si abdica anche alla giustizia. Così, lo Stato viene ridotto ad una funzione sussidiaria».

tratto dal quotidiano "Il Giornale".

giovedì, agosto 23, 2007

Giustizia islamica: la pena per chi fa sesso fuori dal matrimonio!

Il processo penale "mediatico".

Generali-Toro: Antitrust ricorre al Consiglio di Stato per Nuova Tirrena.



RIMINI, 22 agosto (Reuters) - L'Antitrust ha deciso nella sua riunione dei primi di agosto di ricorrere contro la sentenza del Tar del Lazio che ha bocciato la delibera con cui l'organismo di vigilanza aveva imposto la cessione di Nuova Tirrena per dare il via libera a Generali all'acquisto di Toro.

Lo ha detto il presidente dell'Autorità Antonio Catricalà, conversando con i giornalisti a margine del Meeting dell'amicizia in corso a Rimini.

Secondo Catricalà il ricorso, se accolto, metterebbe a rischio la cessione del 2 agosto scorso fatta da Generali di Nuova Tirrena ai francesi di Groupama, perché i francesi partecipano al patto di sindacato di Mediobanca , la banca che - come ha riconosciuto anche la sentenza del Tar in questione - controlla Generali.

Un portavoce di Generali sottolinea che la compagnia "considerati i precedenti dava per scontata la decisione di questo ricorso". "Per quanto ci riguarda abbiamo operato e continueremo a operare seguendo logiche di business", aggiunge.

"Abbiamo deciso all'inizio di agosto di fare ricorso al Consiglio di Stato e, perciò, abbiamo scritto all'Avvocatura dello Stato di proporre il ricorso. Attualmente stiamo preparando l'appello per notificarlo", ha spiegato Catricalà aggiungendo poi che il ricorso dovrebbe essere "notificato a settembre".

Il Tar del Lazio, nei mesi scorsi, ha detto che l'acquisizione di Toro da parte di Generali doveva essere consentita senza condizioni, in quanto l'Autorità non è riuscita a dimostrare il controllo di mercato collettivo da parte delle compagnie. Per questo motivo il Tar ha annullato la parte della delibera che imponeva la cessione da parte di Generali della controllata Nuova Tirrena. Il Tar, comunque, aveva concordato con l'Antitrust nella parte della delibera in cui si parlava dell'esistenza di un controllo di fatto da parte di Mediobanca su Generali.

Il garante Antitrust ha aggiunto oggi che "riproporremo integralmente la nostra linea che, per altro, il Tar ha condiviso in gran parte il nostro presupposto e cioè che Mediobanca controlla Generali".

Catricalà ha aggiunto che Nuova Tirrena è stata poi ceduta "ad una società che noi ritenevamo non utile che comprasse ai fini della concorrenza. Se ci fosse un accoglimento da parte del Consiglio di Stato del nostro appello, sarebbe a rischio quella vendita".

lunedì, agosto 20, 2007

RCA: l'apertura dello sportello è "fatto di circolazione".



Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione (Sent. 13226/2007) in tema di circolazione stradale e più in particolare di incidenti stradali causati dall'apertura di sportelli, hanno stabilito che "proprio con riferimento alla apertura dello sportello senza la dovuta attenzione, sia pure ai fini della responsabilità ex art. 2054 c.c., che nell’ampio concetto di circolazione deve ritenersi compresa anche la situazione di arresto o di sosta di un veicolo su strada o area pubblica di pertinenza della stessa".

sabato, agosto 18, 2007

Le 25 norme più "strane" del mondo!


1) La testa di una balena morta trovata sulle coste inglesi appartiene al Re, mentre la coda è della Regina (nel caso in cui ne avesse bisogno per farsi fare un busto).
2) In Bahrain, un ginecologo maschio può visitare una donna, ma non può guardarle direttamente le parti intime e le può vedere solo attraverso il riflesso di uno specchio
3) A Londra, è illegale fermare un taxi e salirci sopra se si ha la peste
4) Nel Vermont, le donne hanno bisogno del permesso scritto del marito per mettere i denti finti
5) A Boulder, in Colorado, è illegale uccidere un uccello entro i confini della città, come pure possedere un animale domestico: legalmente parlando, gli abitanti di Boulder sono esclusivamente "pet minders", ovvero badanti degli animali
6) Nella città di York si può uccidere uno scozzese all’interno delle antiche mura della città, ma solo se questi ha in mano arco e frecce
7) A Chester, gli uomini gallesi non possono entrare in città prima dell'alba e restarvi dopo il tramonto
8) Nel Kentucky, non si può portare un'arma di nascosto lunga più di 6 piedi (182 centimetri)
9) In Florida, le donne non sposate che fanno paracadutismo di domenica rischiano la galera
10) In Gran Bretagna, un uomo che si trova costretto a urinare in pubblico, lo può fare solo se mira alla ruota posteriore della sua auto e tiene la mano destra sul veicolo
11) In San Salvador, gli autisti ubriachi possono essere uccisi da un plotone di esecuzione
12) A Londra i "Freemen" (onorificenza medievale) possono condurre le pecore giù per il London Bridge senza pagare alcun dazio e possono inoltre portare le oche lungo il Cheapside
13) In Inghilterra, tutti gli uomini al di sopra dei 14 anni devono esercitarsi due ore al giorno con l’arco
14) In Indonesia, la pena per la masturbazione è la decapitazione
15) A Miami, in Florida, è illegale andare con lo skateboard in una stazione di Polizia
16) Nel Lancashire, nessuno può incitare un cane ad abbaiare, dopo che un poliziotto gli ha intimato di smettere
17) In Inghilterra, una donna incinta può partorire da sola, dove vuole. Perfino, se lo desidera, nel casco di un poliziotto
18) Le navi della marina inglese che entrano nel porto di Londra devono rifornire con un barile di rum il governatore della Torre di Londra
19) In Ohio, è contro la legge prendere un pesce azzurro
20) In Alabama, è illegale per un autista guidare bendato
21) Secondo le leggi inglesi sull’evasione fiscale del 2006, è illegale non dire a un agente del fisco qualcosa che voi non volete che lui sappia, sebbene non dobbiate dirgli qualcosa che non pensate che lui debba sapere
22) In Francia, è proibito chiamare un maiale "Napoleone"
23) É considerato tradimento mettere il francobollo raffigurante il Re inglese capovolto
24) Non si può morire in Parlamento
25) É proibito per un taxi di Londra trasportare cani rabbiosi o salme

Esposto alla Commissione UE contro indennizzo diretto.



Spett.le
Commissione dell’Unione Europea
c.a. Sig. Commissario Giustizia, Libertà e Sicurezza
Rue de Loi / Westraat 200
B – 1049 Bruxelles

Spett.le
Parlamento dell’Unione Europea
c.a. Sig. Pres. Commissione Giuridica
Rue Wiertz 167
B - 1047 Bruxelles

Egr. Sig. On.le
Ministro della Giustizia
Via Arenula 70
00186 Roma

Egr. Sig. On.le
Ministro dello Sviluppo Economico
Via Veneto 33
00187 Roma


OGGETTO : Codice delle Assicurazioni (d. Lgs. 7/9/2005 n. 209, art. 149, comma sesto).

Violazione del principio introdotto con la Direttiva del Parlamento e del Consiglio n. 14 del 2005, in base al quale gli Stati membri debbono provvedere, affinché le persone lese a seguito di un sinistro, causato da un veicolo assicurato ai sensi dell’art. 3, par. 1, della direttiva 72/166, possano avvalersi di un diritto di azione diretta nei confronti dell’impresa che assicura contro la responsabilità civile la persona responsabile del sinistro.


1) SOGGETTO DENUNCIANTE :
«NOME» «COGNOME» «INDIRIZZO» «CAP – CITTA’»

2) SOGGETTO CONTRO IL QUALE LA DENUNCIA È PROPOSTA :
REPUBBLICA ITALIANA – Stato membro –

PREMESSO CHE
Con decreto legislativo 7/9/2005, n. 209, il Governo italiano ha esercitato la delega conferita dal Parlamento con legge 29/7/2003, n. 229, in materia di riassetto del sistema assicurativo, attraverso l’emanazione di un articolato provvedimento, denominato “Codice delle Assicurazioni private”.
Tra i vari settori fatti oggetto dell’intervento riformatore vi è anche quello dell’assicurazione obbligatoria in materia di circolazione stradale.
Più specificatamente, nell’ambito della disciplina delle procedure di liquidazione dei danni derivanti da sinistri stradali, il legislatore – agli artt. 149 e 150 – ha introdotto un sistema di risarcimento diretto, in virtù del quale, nella ricorrenza di determinati presupposti, la richiesta risarcitoria non deve più essere presentata all’assicuratore del responsabile civile, bensì al proprio assicuratore.
Il sistema in questione non è entrato in vigore contestualmente alla restante parte del Codice (e cioè il 1° gennaio 2006), in quanto la sua operatività veniva espressamente subordinata all’emanazione, sempre da parte del Governo, di un Regolamento attuativo.
Quest’ultimo è stato poi adottato con Decreto del Presidente della Repubblica il 18/7/2006, n. 254, entrato in vigore il 1° gennaio 2007 e dichiarato applicabile ai sinistri verificatisi a partire dal 1° febbraio 2007.
Il sistema, così come configurato nell’articolazione dei due provvedimenti normativi di rango, rispettivamente, primario e secondario, è caratterizzato – ad opinione pressoché unanime dei primi commentatori – da sostanziale cogenza, nel senso cioè che, in presenza dei presupposti contenuti nel decreto legislativo e nel Regolamento attuativo, il danneggiato non avrebbe altra via, che quella di rivolgere le proprie pretese risarcitorie unicamente nei confronti della propria compagnia di assicurazioni, tanto con riferimento alla fase stragiudiziale, quanto con riferimento all’eventuale fase giudiziale . Ed invero, l’art. 149, primo comma, dispone infatti che: “In caso di sinistro tra due veicoli a motori identificati ed assicurati per la responsabilità civile obbligatoria, dal quale siano derivati danni ai veicoli coinvolti o ai loro conducenti, i danneggiati devono rivolgere la richiesta di risarcimento all’impresa di assicurazione che ha stipulato il contratto relativo al veicolo utilizzato”.
A sua volta, con riferimento all’eventuale fase giudiziale, il sesto comma del medesimo articolo sancisce : “In caso di comunicazione dei motivi che impediscono il risarcimento diretto ovvero nel caso di mancata comunicazione di offerta o di diniego di offerta entro i termini previsti dall’articolo 148 o di mancato accordo, il danneggiato può proporre l’azione diretta di cui all’articolo 145, comma 2, nei soli confronti della propria impresa di assicurazione”.
Come si è anticipato, quest’ultima norma dispone, nel senso che il danneggiato non è legittimato a proporre l’azione in giudizio nei confronti di altri soggetti, diversi dalla propria assicurazione (e tanto meno nei confronti della compagnia del responsabile civile).
Tale interpretazione è in effetti sorretta da almeno tre elementi:
- simmetria con l’univoco significato dell’espressione contenuta nel primo comma
(devono), con riferimento alla procedura stragiudiziale;
- parallelismo sistematico tra la legittimazione passiva della fase stragiudiziale e la legittimazione passiva nella fase giudiziale;
- moventi di politica del diritto, che hanno ispirato le scelte del legislatore delegato nella redazione di questa parte del “Codice delle Assicurazioni private” .
Tanto premesso il sottoscritto ritiene di dover evidenziare il contrasto con l’ordinamento comunitario, che si è verificato con l’introduzione di dette norme del “Codice delle Assicurazioni private”. A tal fine il sottoscritto

ESPONE

Con la direttiva 2005/14/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’1/5/2005, venivano introdotte delle modifiche ad alcune direttive comunitarie in materia assicurativa.
Per quello che qui interessa, l’art. 4 della direttiva 2005/14/CE contiene delle modifiche alla direttiva 90/232/CE, mediante la previsione, tra l’altro, dell’inserimento dell’art. 4 quinquies, che così dispone: “Gli Stati membri provvedono affinché le persone lese a seguito di un sinistro, causato da un veicolo assicurato ai sensi dell’art. 3, par.1, della direttiva 72/166, possano avvalersi di un diritto di azione diretta nei confronti dell’impresa che assicura contro la responsabilità civile la persona responsabile del sinistro”.
Si tratta, all’evidenza, della generalizzazione del principio dell’azione diretta, già introdotto con la direttiva 2000/26/CE, limitatamente alle vittime dei sinistri avvenuti in uno Stato membro diverso da quello di residenza della persona lesa e causati dall’uso di veicoli assicurati e stazionanti presso altro Stato membro.
Sul punto è opportuno sottolineare che, al momento dell’adozione della direttiva
2005/14/CE, l’ordinamento italiano era già adeguato alla normativa europea, in merito allo specifico profilo, in quanto l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore del responsabile era già da tempo prevista, in chiave generale, nell’ambito dell’art. 18, L. 24/12/1969, n. 990 (oggi abrogata a seguito dell’entrata in vigore del “Codice delle Assicurazioni private”), sin dalla sua formulazione originaria.
A ciò si aggiunga che è già spirato il termine, fissato al giorno 11 giugno 2007, previsto per il recepimento della direttiva 2005/14/CE.
Paradossalmente, dunque, oggi, alla luce del disposto dell’art. 149 del “Codice delle Assicurazioni private”, l’ordinamento italiano, invece di adeguarsi a quello comunitario ha incredibilmente compiuto un’operazione di “disarmonizzazione”, introducendo norme che vanno esattamente nel senso opposto rispetto a quello indicato in sede europea.
L’affermata cogenza del sistema di risarcimento diretto, anche con riferimento alla fase giudiziale, priverebbe infatti la persona lesa della possibilità, viceversa obbligatoriamente prevista nella direttiva, di “avvalersi di un diritto di azione diretta nei confronti dell’Impresa che assicura contro la responsabilità civile la persona responsabile del sinistro”.
* * * * *
Ciò premesso ed esposto, il sottoscritto
RICHIEDE

- previa, se del caso, audizione dei Ministri della Giustizia e dello Sviluppo Economico del Governo Italiano;
- previa, se del caso, audizione della associazione esponente, nelle persone dei suoi avvocati delegati ;
DI AVVIARE LA PROCEDURA DI INFRAZIONE
nei confronti dello Stato Italiano per l’attuata violazione della direttiva 2005/14/CE, con specifico riferimento all’art. 4 quinquies, trovandosi l’Ordinamento Italiano non adeguato ai principi contenuti nella suddetta direttiva, trovandosi quindi in palese contrasto con la normativa comunitaria.

Data e luogo, ……

NB: Il fac-simile che precede può essere utilizzato da tuti i Colleghi, previa intestazione con il proprio nominativo e sottoscrizione dell'esposto medesimo.

Il "perdonismo" giudiziario.



La giustizia perdonista è figlia del Sessantotto. Figli del Sessantotto sono infatti i suoi tre principali presupposti.

Il primo è l’idea che la cosiddetta piccola criminalità non dovrebbe essere oggetto di giudizio e di condanna, ma di comprensione e perdono, anzi di simpatia e solidarietà, giacché la condanna e il giudizio devono riguardare piuttosto i tanti fattori sociali e familiari che ne sarebbero le cause «a monte».

Il secondo - logico complemento del primo - vuole che i soli crimini che è davvero necessario e giusto perseguire e castigare, siano quelli che si commettono nelle alte sfere del potere politico, industriale e finanziario.

Il terzo è infine il grande miraggio etico-politico dal quale derivano entrambe queste fisime, ossia il caro vecchio ideale della Distruzione del Sistema.

L’ideologia perdonista che oggi ispira le nostre avanguardie giudiziarie è insomma una variante di quella che ispirò i nostri anni piombo.

Il sogno è in effetti ancora quello che allora abbagliò alcune migliaia di ragazzi borghesi imbaldanziti dalle prime luci della nostra società del benessere: colpire al cuore lo stato, abbattere il capitalismo, vibrare il colpo di grazia alla società borghese. La differenza riguarda soltanto le forme della lotta.

Allora questi ideali furono perseguiti dal partito armato meditante l’esecuzione quotidiana di un bel programmino di tumulti, cortei, sparatorie, attentati, rapimenti, incendi, appelli, espropri proletari e scontri a fuoco con la polizia, compreso quel massimo prodotto del suo genio politico che fu la strage di via Fani.

Oggi la stessa causa viene invece servita nei tribunali mediante un’arma che non è più la guerriglia urbana bensì una vera e propria guerriglia giudiziaria combattuta a suon di sentenze ispirate a quel nobile principio anticlassista che impone la massima severità coi grandi (veri o anche soltanto supposti) criminali della politica e della finanza e la massima indulgenza con quei poveri cristi dei piccoli assassini.

Gli eroi di questa nuova forma di guerriglia anti-sistema pretendono infatti di combattere una causa anti-classista. Balle.

A dimostrare il contrario basta il fatto evidente che le vittime della cosiddetta «piccola criminalità» non appartengono mai alle classi alte.

Abitualmente appartengono alle seguenti categorie: vecchiette alle quali lo scippatore, scippando la borsa, a volte scippa anche la vita; modeste famiglie domiciliate in abitazioni sfornite di efficaci dispositivi di sicurezza; il vasto popolo dei piccoli commercianti acquattati in negozietti anch’essi privi di adeguati sistemi di protezione e di allarme; infine tutti quei poveretti e quelle poverette, appartenenti a famiglie indigenti o di umile condizione, che vengono spesso accoppati, come Maria Antonietta Multari, da noti assassini a piede libero.

Gli eroi della guerriglia giudiziaria ce l’hanno dunque con le classi povere?

Ruggero Guarini
tratto dal quotidiano “Il Giornale”.

Malagiustizia? Ecco la ricetta del VicePresidente del CSM.



Dopo la risonanza sociale che hanno avuto i recenti casi delle scarcerazioni facili, il vice presidente del Csm Nicola Mancino ha dichiarato in un intervista a "La Stampa" tutta la sua preoccupazione per il dilagare di una sfiducia generalizzata nella giustizia.

"Bisogna fare i conti con un disagio profondo - ammette Mancino - Nello stesso tempo, pero', da uomini di legge sbaglieremmo a farci prendere la mano. E a pensare di risolvere il problema inasprendo le punizioni cosi', dalla sera alla mattina. La realta' e' piu' complessa. Bisogna garantire gli individui e assicurare al tempo stesso l'efficacia della norma".

Tutto questo è realizzabile secondo Mancino "accorciando innanzitutto la durata dei nostri processi, che e' irragionevolmente lunga", attraverso "lo snellimento delle procedure e la possibilita' di saltare un grado di giudizio, limitando di molto in casi in cui si puo' arrivare alla Cassazione. L'Italia e' l'unico Paese che si permette il lusso di avere molte migliaia di avvocati cassazionisti e un corrispondente numero di magistrati della suprema corte".

"Non e' un caso - conclude Mancino - se il presidente Napolitano fa appello a un atteggiamento di reciproca disponibilita' tra maggioranza e opposizione. Perche' se prevale la logica dello scontro, e ciascuno si ripromette di azzerare, una volta al governo, le riforme fatte dagli avversari, allora non ci dobbiamo poi soprendere se i nostri magistrati rispondono a leggi o troppo severe, o troppo lassiste, che comunque non risultano piu' al passo con i tempi".

giovedì, agosto 02, 2007

Buone ferie a tutti.

Tasse: Prodi scenda dal pulpito.

Prodi è in vena di omelie sugli omileti, cioè sui preti che tengono le omelie. Si sa che il professor Prodi è un cristiano adulto, e per lui cristiano adulto significa che il politico deve essere autonomo rispetto alla Chiesa.

Papa, Vescovi e preti facciano il loro mestiere: invitino alle preghiere del mattino e della sera, alla confessione frequente, alla comunione eucaristica con le condizioni richieste, sovvenire alle necessità della Chiesa secondo le leggi e le usanze ecc. Ma, almeno dopo il Medioevo e soprattutto con il trionfo della mentalità risorgimentale, si dia a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.

Lo Stato pensi al bene profano pubblico: alle case per i poveri, al lavoro per i giovani, alla possibilità per i fidanzati di formarsi una famiglia, alla velocità sulle strade, alla sanità pubblica, agli scontrini fiscali, alla serietà della scuola - non solo quella privata - ecc.

Per il resto: come si mettono i candelieri sull'altare, quali colori liturgici si usano nelle diverse feste, il vino e l'acqua per la messa, i libri sacri da usare (attenzione, prof. Prodi, organizzi qualche corso speciale, perché sta cambiando un po' tutto in questi giorni!): per quanto attiene il servizio liturgico, professore, lasci che facciano i sacerdoti e i sagrestani.

C'è sempre il pericolo del Papa-re, e dell'Imperatore-sagrestano: Napoleone, poi, aveva fatto redigere un catechismo da imporre alla Chiesa di Francia: non si era accontentato di suggerire regolette per l'articolazione delle prediche.

Il pulpito per queste istruzioni ecclesiastiche i politici di tendenze sinistrorsa lo trovano subito, oggi, anche tra gli organi di stampa dipendenti dalla Chiesa: Famiglia cristiana è subito pronta a non fare politica raccomandando una precisa orientazione politica: e di fatti, ecco che Prodi sale sul pergamo dei Paolini per raccomandare ai credenti di pagare le tasse.

Attenzione: dopo un lungo contrasto tra Chiesa e Stato, dove la Chiesa in qualche misura dettava legge alla cosa pubblica, si può giungere a un periodo in cui sia il governo nazionale a suggerire il comportamento etico che devono tenere i credenti.

Certo, l'escussione delle tasse è un dovere morale e l'evasione fiscale un peccato. Ma non si può dimenticare che un terzo degli italiani - non dei cattolici - non assolve di pagare le tasse almeno completamente.

Se è vero che i credenti che votano centro sinistra sono scesi dal 44% al 26% in questi ultimi tempi, si tenga presente che non è giusto richiamare soltanto i cattolici a questo obbligo. Senza dire che sembra strano che su 40.000.000 di contribuenti solo 300.000 sono soltanto coloro che dichiarano più di 100.000 euro all'anno. Insomma, quando i cattolici contano sempre meno, debbono essere caricati di maggiore responsabilità morali anche per le tasse? E gli altri?

Va da sé che per chi ragiona con ragione il tema delle tasse va avvicinato almeno al tema dell'aborto, dell'eutanasia, dei Dico e così via. Professor Prodi, dove mettiamo la coerenza? Perché non si sente in dovere di richiamare l'obbligo dell'osservanza della morale umana anche in altri settori e si limita all'esortazione a pagare le tasse? Questo imperativo non valeva anche quando al governo erano democristiani e affini?

Ciò sia detto senza dimenticare che le tasse vanno pagate non soltanto dai «semplici cittadini», ma anche dai sottosegretari, dai bidelli, dai ministri; dai presidenti del governo e della repubblica.

Proprio oggi si annuncia che a fine agosto scatterà l'aumento di 815 euro mensili ai parlamentari con l'aggiunta di altri soldi che Mastella regalerà agli onorevoli. Tutti i cittadini uguali di fronte alle leggi? O la politica è motivo di discriminazione anche per gli stipendi?

Incomincino i parlamentari a dare gli esempi di prediche rigorose e complete: prediche da giustificare con le dichiarazione dei redditi. Possibile che i politici pensino che siamo tutti dei cretini o disonesti?

Mons. Alessandro Maggiolini

Vescovo Emerito di Como

Articolo tratto dal quotidiano “Il Giornale”.

L'etica dei politici.


“Anche i politici hanno una loro etica. Tutta loro. Ed è una tacca più sotto di quella di un maniaco sessuale”.

Woody Allen

Sentenza a Milano: definire “toga rossa” un magistrato è diffamazione!


L’essere considerati magistrati di sinistra non ha sempre accezioni positive, ma, in determinati contesti, può assumere “valenza diffamatoria” e “certamente denigratoria”, specie se la si usa nei confronti di un magistrato che con la sinistra non ha nulla da spartire.

È questa, in estrema sintesi, la motivazione con cui il giudice unico della prima sezione civile del Tribunale di Milano, Giuseppe Tarantola, ha condannato lo scrittore e politologo Giorgio Galli e la casa editrice Baldini Castoldi Dalai a pagare cinquemila euro a Lorenzo Matassa, ex pubblico ministero di Palermo ed ex consulente della commissione parlamentare Mitrokhin.

La sentenza, di cui oggi dà notizia il “Giornale di Sicilia”, riguarda alcune righe del libro “Piombo rosso”, scritto da Galli per la casa editrice milanese.

Matassa veniva citato a proposito della morte del tecnico informatico Michele Landi, trovato morto nella sua abitazione e -secondo il magistrato — “suicidato dai Servizi segreti”. In questo contesto, Galli definiva il magistrato palermitano “una toga rossa, di quelle particolarmente sgradite al presidente del Consiglio (in carica, quando fu scritto il volume, c’era Silvio Berlusconi, ndr) e ai suoi giornali”.