lunedì, febbraio 15, 2021

La deposizione del coniuge e dei parenti delle parti è ammissibile.

Cass. Civ. Sez. Lavoro – Ord. n. 2295/2021 del 02 febb. 2021.

“Venuto meno il divieto di testimoniare previsto dall'art. 247 cod.proc.civ. per effetto della sentenza della Corte Cost. nr. 248 del 1974, i soggetti che, come nella specie, sono legati alle parti processuali dai vincoli di parentela o affinità possono (e devono) essere sentiti in qualità di testimoni, restando ovviamente salva, al di là della ricorrenza dell'ipotesi di cui all'art. 246 cpc, la successiva valutazione di attendibilità dei testimoni, all'esito del loro esame.

A tale riguardo è utile ricordare l'insegnamento di questa Corte secondo cui: “In materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti (...), l'attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto dì ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità” (così Cass. nr. 25358 del 2015 con i richiami ivi effettuati a Cass. nr. 1109 del 2006; conformi Cass. nr. 12365 del 2006 e Cass. nr. 4202 del 2011; cfr. anche Cass. nr. 25549 del 2007).

Coerentemente con tali premesse, si espone alle denunciate criticità l'ordinanza che, ai sensi dell'art. 245 cpc, ai fini di riduzione delle liste testimoniali sovrabbondanti, escluda quali testimoni coloro che sono legati alle parti processuali dai vincoli indicati all'art. 247 cpc - e per il solo fatto di detti vincoli,- in quanto espressione di un pregiudizio e di un aprioristico giudizio di inattendibilità che non trova alcun fondamento nel dettato normativo e nei principi della Suprema Corte”.

sabato, gennaio 02, 2021

LA PIATTAFORMA "RICONOSCO" NON RICONOSCE NESSUNO PERCHE' NON FUNZIONA!

 


Continua il tormentone di fine anno che il COA di Salerno, per chiudere degnamente il 2020, ha riservato a noi iscritti.
Intendiamo evidenziare che, in periodo di emergenza COVID, l'attivazione della procedura di verifica della cd "continuita' professionale" appare chiaramente inempestiva e oggettivamente vessatoria.
Una semplice verifica a mezzo google ci ha consentito di appurare che nessuno dei grossi ordini forensi risulta aver attivato la procedura, fatta eccezione per tre ordini di piccole dimensioni (tra cui quello di Perugia), che però poi causa covid hanno disposto rinvio.
Invece i nostri solerti rappresentanti locali, addirittura il 29 dicembre, come se nulla fosse hanno proclamato il fatidico bando.
Ma si dirà: è la legge! Non non è una legge, bensì un mero DM (dunque un atto amministrativo di rango minore), che apertamente collide con il principi di libertà dell'esercizio professionale e che, pertanto, è fortemente sospetto d'illeggittimità.
Si badi bene, il giudizio non è nostro, ma dello stesso parlamento italiano che a fine 2008 si è fatto promotore di una specifica iniziativa abrogativa, ripristinatoria dei principi di libertà sanciti dalla nostra carta costituzionale.
Il provvedimento abrogativo fu assegnato alla commissione giustizia, ma la emergenza covid ha fatto passare in secondo piano il problema.
Ci ha pensato il COA di Salerno a riproporlo!
Oltretutto con uno strumento tecnico (la famosa piattaforma "Riconosco"), che già aveva dato grossi problemi con le dichiarazioni per l'antiriciclaggio, dimostrando tutta la sua inadeguatezza (......ma quanto ci costa?).
Speriamo che il buon senso prevalga e che quest' ennesimo "bando manzoniano", passi ad ammuffire in archivio.
Il mitico maestro Manzi diceva: "non è mai troppo tardi".
Ancora auguri di buon anno nuovo a tutti i Colleghi del Foro di Salerno....
Giuseppe Celia

sabato, ottobre 17, 2020

Il vincolo di destinazione impresso alle aree destinate a parcheggio dalla “legge ponte”.

Cass. Civ. II Sezione -  ordinanza n.  21859/2020 del 09 ottobre 2020 – Presidente: Manna – Relatore: Scarpa.

 “Il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall’art. 41 sexies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, in base al testo introdotto dall'art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, norma di per sé imperativa, non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa. 

Tale vincolo si traduce in una limitazione legale della proprietà, che può essere fatta valere, con l'assolutezza tipica dei diritti reali, nei confronti dei terzi che ne contestino l'esistenza e l'efficacia. La normativa urbanistica, dettata dall'art. 41 sexies della legge n. 1150 del 1942, si limita, tuttavia, a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell'edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per l'epoca dell'edificazione (parametri nella specie modificati dall'art. 2, legge n. 122 del 1989). 

Ai fini del rispetto del vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41 sexies citato, il rapporto tra la superficie delle aree destinate a parcheggio e la volumetria del fabbricato, così come richiesto dalla legge, va dunque effettivamente verificato a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia (Cass. 11 febbraio 2009, n. 3393). 

L'art. 41 sexies della Legge urbanistica opera, pertanto, come norma di relazione nei rapporti privatistici e come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la P.A., la quale non può autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di dette aree, costituendo l'osservanza della norma condizione di legittimità della licenza (o concessione) di costruzione, e alla quale esclusivamente spetta l'accertamento della conformità degli spazi alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della loro idoneità ad assicurare concretamente la prevista destinazione. 

Sempre questa Corte ha affermato come gli spazi che debbono essere riservati a parcheggio ex art. 41 sexies possono essere ubicati indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe idonee a soddisfare  l'esigenza, costituente la ratio della norma, di deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22 febbraio 2006, n. 3961). 

In ogni caso, il vincolo di destinazione impresso alle aree destinate a parcheggio, interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, di cui all'art. 41 sexies, legge n. 1150 del 1942, non impedisce che il proprietario dell'area possa riservare a sé, o trasferire a terzi, il diritto di proprietà sull'intera area, o su parti di essa, fermo restando il succitato diritto d'uso da parte dei proprietari delle unità immobiliari site nel fabbricato nei limiti delle indicate proporzioni di cubatura, mentre le aree eccedenti detta misura rimangono nella libera disponibilità del costruttore - venditore (Cass. 9 novembre 2001, n. 13857; Cass. 24 novembre 2003, n. 17882; Cass. 23 gennaio 2006, n. 1221; Cass. 27 dicembre 2011, n. 28950; Cass. 3 febbraio 2012, n. 1664; Cass. 8 marzo 2016, n. 8220; Cass. 8 marzo 2017, n. 5831; Cass. 25 settembre 2018, n. 22709)”

domenica, ottobre 11, 2020

La cancellazione dell’avvocato dall’albo (anche se volontaria), determina automaticamente l’interruzione del processo.

 

Cass. Civ. Sez. VI-3 –  Ord. n. 21359/2020 del  06/10/2020 – Presidente: De Stefano – Relatore: Cricenti.

La questione, controversa in passato, ha trovato una soluzione nella decisione delle Sezioni Unite n. 3702/2017 secondo cui: “un'interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 301, co. 1, cpc porta ad includere la cancellazione volontaria suddetta tra le cause di interruzione del processo, con la conseguenza che il termine di impugnazione non riprende a decorrere fino al relativo suo venir meno o fino alla sostituzione del menzionato difensore”.

Precisano le Sezioni unite che non rileva la causa della cancellazione: “quanto all'asserita inapplicabilità dell'art. 301, comma 1, cpc, si può obiettare che la norma può essere intesa come disposizione che distingue le ipotesi non già in relazione alle cause del venir meno dello ius postulandi (se connesse o non al loro verificarsi entro la sfera di dominio del difensore), ma alla perdita dello status di avvocato e procuratore legalmente esercente, non importa per quale causa (che sia volontaria o non lo sia)”(Cass. Sez. Un. n. 3702/2017).

Ciò detto, e posta l’equiparazione della cancellazione volontaria alle altre cause di interruzione, è altresì regola quella per cui la causa interruttiva “determina automaticamente l'interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, e preclude ogni ulteriore attività processuale, con la conseguente nullità degli atti successivi e della sentenza eventualmente pronunciata; ove, tuttavia, il processo sia irritualmente proseguito, nonostante il verificarsi dell'evento morte, la causa interruttiva può essere dedotta e provata in sede di legittimità, ai sensi dell'art. 372 cpc, mediante la produzione dei documenti necessari, ma solo dalla parte colpita dal predetto evento, a tutela della quale sono poste le norme che disciplinano l'interruzione, non potendo essere rilevata d'ufficio dal giudice, né eccepita dalla controparte come motivo di nullità della sentenza”(Cass. n. 1574/2020).

lunedì, ottobre 05, 2020

La determinazione in sede giudiziale del compenso dell’avvocato.


Cass. Civ. Sez. II – ord.  dell’11/sett./2020  n. 18492    – Presidente: Cosentino – Relatore: Dongiacomo.

“L'art. 5, comma 2, prima parte, del d.m. n. 55 del 2014, applicabile ratione temporis, prevede, infatti, che, nella liquidazione dei compensi "a carico del cliente", si ha riguardo "al valore corrispondente all'entità della domanda" mentre, a norma dell'art. 5, comma 1, del d.m. n. 55 cit., solo nella liquidazione dei compensi a carico del soccombente, si ha di norma riguardo, nei giudizi di pagamento di somme di denaro, alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata.

Il tribunale, pertanto, lì dove ha ritenuto che, ai fini della liquidazione del compenso spettante all'avvocato nei confronti del proprio cliente, occorre tener conto, trattandosi di giudizio per il pagamento di somme, della somma attribuita alla parte vincitrice dalla sentenza che ha poi definito il giudizio, piuttosto che a quella domandata, ha, evidentemente, violato la predetta disposizione normativa.

Tale principio, peraltro, non esclude che, come si desume dalla seconda parte dello stesso comma 2 dell'art. 5, oltre che dalla prima parte del successivo comma 3, che il giudice debba verificare se la somma domandata sia manifestamente diversa rispetto al "valore effettivo della controversia", così come determinato anche in ragione dell'entità economica dell'interesse sostanziale perseguito dal cliente.

Nella giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 18507 del 2018; Cass. n. 1805 del 2012; Cass. n. 13229 del 2010), in effetti, si è affermato e consolidato il principio secondo il quale, nei rapporti tra avvocato e cliente, il giudice, ove ravvisi una manifesta sproporzione tra il formale petitum e l'effettivo valore della controversia, qual è desumibile dai sostanziali interessi in contrasto, gode di una generale facoltà discrezionale di adeguare la misura dell'onorario all'effettiva importanza della prestazione, in relazione alla concreta valenza economica della controversia (Cass. n. 18507 del 2018; Cass. n. 1805 del 2012).

Nel caso della liquidazione degli onorari a carico del cliente, quindi, l'indagine, che di volta in volta il giudice di merito deve compiere, è quella di verificare l'attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare, tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l'importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato rispetto all'effettivo valore della controversia, come nel caso in cui il legale abbia esagerato in modo assolutamente ingiustificato la misura della pretesa azionata, in evidente sproporzione rispetto a quanto poi attribuito alla parte assistita poiché, in quest'ultimo caso, il compenso preteso alla stregua della relativa tariffa non può essere considerato corrispettivo della prestazione espletata (Cass. n. 1805 del 2012; Cass. Cass. n. 18507 del 2018).

sabato, settembre 26, 2020

Compensazione delle spese processuali ed obbligo di motivazione.

 


 Cass. Civile Sez. 6 - Ord. Num. 20001/2020 Presidente: LOMBARDO - Relatore: SCARPA - Data pubblicazione: 24/09/2020.

 "Trova applicazione, ratione temporis,  l’art. 92, comma 2, c.p.c., come modificato dall'art. 45, comma 11, I. 18 giugno 2009, n. 69, in forza del quale il giudice poteva compensare le spese fra le parti “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”.

In tale regime, il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese "per gravi ed eccezionali ragioni" deve comunque essere esplicitamente motivato e riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa.

Ove non vi abbia provveduto il primo giudice, le gravi ed eccezionali ragioni, per colmare il tenore della pronuncia di primo grado, possono essere indicate, in sede di appello, dal giudice chiamato a valutare la correttezza della statuizione sulle spese, il quale nell'esercizio del potere di correzione, può dare, un diverso fondamento al dispositivo contenuto nella sentenza impugnata, rimanendo tuttavia entro i limiti del devolutum segnati dall'atto di gravame (Cass. Sez. 6 - 2, 23/12/2010, n. 26083; Cass. Sez. 6 - 2, 28/05/2015, n. 11130; Cass. Sez. 6 - 3, 20/04/2016, n. 7815).

L’art. 92, comma 2, c.p.c., laddove - secondo il testo introdotto dalla legge n. 69/2009 (come anche nel testo poi introdotto dal d.l. n. 132/2014, convertito in I. n. 162/2014, a seguito di Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77) -  permette la compensazione delle spese di lite allorché concorrano "gravi ed eccezionali ragioni", costituisce una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche.

In particolare, anche l'oggettiva opinabilità delle questioni affrontate o l'oscillante soluzione ad esse data in giurisprudenza integra la suddetta nozione, se ed in quanto sia sintomo di un atteggiamento soggettivo del soccombente, ricollegabile alla considerazione delle ragioni che lo hanno indotto ad agire o resistere in giudizio e, quindi, da valutare con riferimento al momento in cui la lite è stata introdotta o è stata posta in essere l'attività che ha dato origine alle spese, sempre che si tratti di questioni sulle quali si sia determinata effettivamente la soccombenza, ossia di questioni decise (Cass. Sez. Un., 22/02/2012, n. 2572; Cass. Sez. 6 - 2, 10/02/2014, n. 2883; Cass. Sez. Lav., 07/08/2019, n. 21157)”.

venerdì, settembre 18, 2020

L'onere d'esperire il procedimento di mediazione (ex art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010) nei giudizi d'opposizione a decreto ingiuntivo.

 

 Corte Cassazione Civ., Sezioni Unite, sent. del 18 settembre 2020, n. 19596.

Le Sezioni Unite, decidendo su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il seguente principio di diritto: 

"Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi dell'art. 5, comma 1 -bis, del d.lgs. n. 28 del 2010, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione del decreto, l'onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1 -bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo".

lunedì, settembre 14, 2020

Il consenso dei condividenti nell'ipotesi di divisione ereditaria "plurimasse".

 


Cass. Civ. Sez. II - sent. dell'11 sett. 2020 n. 18910 - Presidente: Lombardo - Estensore: Oricchio.

"Nell'ipotesi di giudizio divisorio avente ad oggetto masse plurime ereditarie provenienti da titoli diversi, la divisione unitaria può avvenire per effetto del consenso comunque manifestato dai condividenti".

"Il condividente che contesti l'avvenuta divisione unica di masse ereditarie plurime, dopo l'effettuazione della stessa sulla base del consenso dei condividenti, deve risultare in portatore di un concreto ed effettivo suo interesse, leso da tale tipo di procedimento unitario divisionale".

domenica, agosto 30, 2020

L’apposizione di condizione sospensiva potestativa mista al contratto.

 

Cassazione Civile – II Sezione – sentenza n. 18031/2020 pubblicata il 28 agosto 2020 – Presidente: Oricchio – Relatore: Criscuolo.

“Questa Corte ha anche di recente affermato (Cass. n. 22046/2019) che, ove le parti subordinino gli effetti di un contratto alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per potere pagare in tutto o in parte il prezzo stabilito, tale condizione è qualificabile come "mista", dipendendo la concessione del mutuo anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la pratica. Tuttavia, la mancata erogazione del prestito comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente, sia perché questa disposizione è inapplicabile qualora la parte tenuta condizionatamente ad una data prestazione abbia interesse all'avveramento della condizione (cd. condizione bilaterale), sia perché l'omissione di un'attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto essa costituisca oggetto d’un obbligo giuridico, e la sussistenza di un siffatto obbligo deve escludersi per l'attività di attuazione dell'elemento potestativo in una condizione mista (in senso conforme Cass. n. 18512/2017 che ribadisce che la condizione può ritenersi apposta nell'interesse di uno solo dei contraenti solo in presenza di una clausola espressa in tal senso o di elementi che inducano a ritenere che l'altra parte non abbia alcun interesse al suo verificarsi. Ne consegue che l’art. 1359 c.c., secondo cui la condizione del contratto si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, non è applicabile nel caso in cui la parte, tenuta condizionatamente ad una determinata prestazione, abbia anch'essa interesse al verificarsi della condizione). In senso conforme si veda anche Cass. n. 16620/2013, secondo cui la norma dell’art. 1359 cod. civ., secondo cui la condizione del contratto si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, non è applicabile nel caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una determinata prestazione abbia anch'essa interesse all'avveramento di essa. La condizione può ritenersi apposta nell'interesse di una sola delle parti contraenti soltanto quando vi sia un'espressa clausola contrattuale che disponga in tal senso  ovvero allorché - tenuto conto della situazione riscontrabile al momento della conclusione del contratto - vi sia un insieme di elementi che nel loro complesso inducano a ritenere che si tratti di condizione alla quale l'altra parte non abbia alcun interesse; in mancanza, la condizione stessa deve ritenersi apposta nell'interesse di entrambi i contraenti (conf. Cass. n. 6423/2003; Cass. n. 23824/2004)”.