domenica, luglio 31, 2016

Deontologia forense: Le sole (e mere) dichiarazioni dell’esponente non bastano a ritenere provato l’addebito.

“L’attività istruttoria espletata dal Consiglio territoriale deve ritenersi correttamente motivata allorquando la valutazione disciplinare sia avvenuta non già solo ed esclusivamente sulla base delle dichiarazioni dell’esponente o di altro soggetto portatore di un interesse personale nella vicenda, ma altresì dall’analisi delle risultanze documentali acquisite agli atti del procedimento, che rappresentano certamente criterio logico-giuridico inequivocabile a favore della completezza e definitività dell’istruttoria”. 

Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Piacci), sentenza del 24 dicembre 2015, n. 192.

NOTA: In senso conforme, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Salazar, rel. Tinelli), sentenza del 24 settembre 2015, n. 150, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Vermiglio, rel. Pisano), sentenza del 20 marzo 2014, n. 43, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Salazar, rel. Sica), sentenza del 18 marzo 2014, n. 25; Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Perfetti, Rel. Salazar), sentenza del 20 febbraio 2013, n. 3.

sabato, luglio 30, 2016

Fondo Atlante 2, le casse di previdenza investono. Quali garanzie per i contribuenti?

Come noto Atlante è un personaggio della mitologia. Secondo Esiodo Zeus lo costrinse a tenere sulle spalle l’intera volta celeste e la punizione gli fu inflitta per essersi alleato con Crono, padre di Zeus, che guidò la rivolta contro gli dèi dell’Olimpo.
Pare ora che anche il fondo Atlante2 sia destinato a sorreggere l’intera volta celeste bancaria (italiana, meglio rappresentata da MPS e dall’intero guazzabuglio in cui per anni hanno banchettato i partiti, gli amici degli amici, la mala gestio, ed il cui conto si vuole servire come un piatto freddo ai comuni cittadini).
Il governo, attraverso il Mef, esercita la moral suasion (ergo tradotto dall’inglese in italiano spicciolo: vile ricatto) e invita le 19 Casse di Previdenza cosiddette private riunite nell’Adepp (70 miliardi di patrimonio attuale e quasi 2 milioni di contribuenti; prive di qualsiasi finanziamento pubblico e con una pressione fiscale negativa unica in Europa, incredibilmente ancor peggio rispetto ad Inps e Fondi Pensione) a investire alcuni miliarducci nel nuovo fondo, il cui fondo in pancia ha solo Npl (Non Performing Loan).
Crediti deteriorati e sofferenze bancarie tanto per intenderci.
E se si chiamano così un motivo ci sarà. Il Mef chiede di farlo per investire nel sistema del credito italiano, nel sistema Paese, nell’economia reale. Bla bla bla.
Ma quando il Mef era chiamato a sostenere un equo peso fiscale sulle Casse cosiddette private e dunque nel futuro della vita di 2 milioni di liberi professionisti (i quali non fanno altro che alimentarsi le proprie pensioni e la propria assistenza), dov’era?
Nessuno glielo ricorda? L’Adepp il 25 luglio ha deliberato di “sostenere l’iniziativa Atlante2”, toccando poi ai Cda dei singoli enti previdenziali decidere l’investimento per 500 milioni di euro.
In cambio del sostegno all’iniziativa Atlante2 le Casse dovrebbero ottenere dall’esecutivo la definitiva trasformazione della natura da pubblica a privata (rimessa in discussione solo dal Consiglio di Stato, con tutte le nefaste conseguenze di una ibridazione assurda: organizzati privatamente dal 1994 ma dichiarati pubblici solo per quanto attiene alle conseguenze negative).
Una trasformazione tuttavia indispensabile, perché altrimenti l’aiuto di un soggetto sostanzialmente pubblico prefigurerebbe un aiuto di Stato che Bruxelles boccerebbe.
Da tale “gentile concessione” (farsesca) conseguirebbe la non applicazione dei bandi di gara europei per l’affidamento dei mandati, la sottrazione alla spending review (20/25 milioni/anno non briciole), la determinazione in piena autonomia delle remunerazione dei vertici delle Casse (che interessi a qualcuno?) e forse (ma forse) anche la modifica della tassazione sugli investimenti.
Tutto ciò mi pare un po’ pochino atteso che ci sarebbe da ridisegnare interamente il sistema fiscale che ogni anno costa a tutte le casse oltre un centinaio di milioni.
Ricordiamo peraltro che i cosiddetti liberi professionisti sono doppiamente “tassati” (e beffati) atteso che pure da contribuenti soddisfano il debito enorme dell’Inps.
Dunque cornuti e mazziati.
In realtà i problemi di fondo al fondo (Atlante2) sono almeno tre: etici, politici ed economici. Se per i primi due Adepp li ha ritenuti superati (io avanzo invece forti perplessità), rimane da capire se l’operazione sia economicamente conveniente.
Le Casse cosiddette private devono difatti garantire pensioni adeguate e investire finanziariamente con la massima diligenza possibile, senza incorrere in rischi particolari (infatti hanno un sistema di vigilanza assai stringente).
Infatti nel comunicato Adepp si subordina la partecipazione all’iniziativa Atlante2 non solo all’autonomia decisionale dei Cda e al rispetto delle loro asset allocation e alle procedure di investimento, ma anche alle «proposte tecniche per le necessarie valutazioni sui rischi e sul rendimento nonché le formali direttive da parte dei ministeri vigilanti in materia di investimenti».
Il Mef avrebbe sventagliato la mera promessa del 6% di rendimento annuo.
Occorre invece realmente comprendere cosa ci sia dentro al Vaso di Pandora di Atlante2 e quali rischi reali presenti tutto ciò.
Non si può fare real politik o virtual politik con il futuro di 2 milioni di persone. In tal senso hanno già assunto posizioni assai dure tanto l’Associazione dei Commercialisti, quanto il Movimento Forense ed Mga, pretendendo trasparenza e senso di responsabilità.
Personalmente ho chiesto che in seno a Cassa Forense la decisione venga assunta, quale atto di indirizzo, dall’organo legislativo (Comitato dei Delegati) e non meramente demandato al CdA.
A chi vuole fare (e farsi) politica con i soldi altrui chiedo di farla con i soldi propri.

di Marcello Adriano Mazzola | 30 luglio 2016

giovedì, luglio 28, 2016

INIZIATIVA ATLANTE2 E CASSA FORENSE: ISTANZA DEL MOVIMENTO FORENSE.

Roma, 28 luglio 2016.

Spett.le CASSA FORENSE 
In persona del Presidente Nunzio Luciano 
Via E. Q. Visconti 8, 
00193 Roma 
PEC istituzionale@cert.cassaforense.it 

Preg.mo Presidente,
Il 25 luglio us l’assemblea dell’Adepp (Associazione degli Enti Previdenziali Privati di cui fa parte la Cassa Forense) ha deliberato di sostenere l’iniziativa Atlante2 e ha dato il via libera preventivo ad un investimento totale di 500 milioni di euro che dovrà essere deliberato da ogni singola Cassa.
Atlante2, sempre secondo quanto riportato dalla stampa anche specializzata, è un fondo di investimento promosso dal Governo finalizzato al “salvataggio” di Istituti di credito in crisi (in particolare MPS) e garantirebbe agli investitori - quindi potenzialmente a Cassa Forense - rendimenti elevati (si vocifera del 6%), ma allo stato non sono chiari i rischi.
Strettamente legate a questa operazione economica, sempre secondo la stampa, ci sarebbero una serie di impegni presi dal Governo nei confronti delle Casse private in ordine alla tassazione futura ed al controllo ministeriale degli Enti previdenziali.
Orbene, pur consapevoli del particolare momento di difficoltà che sta attraversando il nostro Paese, occorre scongiurare la concezione che le casse previdenziali private, in particolare Cassa Forense una delle più virtuose in tema di redditività, siano considerate dal Governo alla stregua di “tesoretti” da cui attingere nel momento del bisogno.
 La forte preoccupazione di molti avvocati è alimentata, inoltre, dall’impiego del patrimonio delle Casse di Previdenza per finalità e scopi che non appaiono quelli individuati dalla vigente normativa e non in linea con la funzione della nostra Cassa da sempre ispirata alla sana e prudente gestione, limitando i rischi e conservando il capitale versato dagli iscritti sotto il controllo delle istituzioni preposte.
Orbene, ad oggi i fatti di cui gli avvocati contribuenti hanno notizia derivano esclusivamente dalla stampa e dalle posizioni fortemente negative assunte da alcune associazioni rappresentative di altri ordini professionali, posizioni queste che - in assenza di informazioni da parte della Cassa - appaiono per gran parte condivisibili.
Quanto sopra, nella consapevolezza che purtroppo l’inarrestabile discesa dei redditi degli avvocati sta determinando conseguentemente minori introiti per la cassa forense rispetto a quelli attesi.
Pertanto, il Movimento Forense chiede che la Cassa di Previdenza ed Assistenza Forense comunichi agli iscritti ogni aspetto relativo alla iniziativa Atlante2 rendendo noti documenti, verbali di assemblee e riunioni, pareri interni ed esterni, perizie, ed ogni elemento a Vostra conoscenza, così da consentire ad ogni contribuente una esatta valutazione della situazione.
Considerando che tra due mesi si terrà a Rimini il Congresso Nazionale Forense, il Movimento Forense invita la Cassa Forense a sospendere ogni iniziativa relativa al Fondo Atlante2 ed a discutere tale questione avanti la massima Assise dell'Avvocatura.
Con ogni più ampia riserva, alla luce della Vostra risposta alla presente, di intraprendere ogni azione politica, e non, a tutela degli avvocati contribuenti.
Cordiali saluti.
Movimento Forense 
Il Presidente 
Massimiliano Cesali

lunedì, luglio 25, 2016

Verso il Congresso di Rimini: la rappresentanza non va interpretata come un mestiere.

Remo Danovi è intervenuto sui problemi di un’avvocatura oggi afflitta da grave crisi, con una proposta che è frutto della esperienza compiuta nello studio della professione e nelle importanti cariche che ha rivestito.
La proposta coglie il problema critico della rappresentanza, quale è stato declinato negli ultimi decenni: a chi spetti la rappresentanza “politica” della professione, e in cosa essa consista.
Gli ordini nazionali e territoriali, come è noto, rappresentano la comunità professionale nella propria identità culturale ed etica e questo è uno degli elementi che ne caratterizzano la posizione nell’ordinamento giuspubblicistico generale (per questo la Corte costituzionale ha attribuito la materia alla potestà esclusiva dello Stato).
Non è, o meglio non dovrebbe essere, una rappresentanza di interessi di categoria, e neppure una rappresentanza politica in senso proprio perché gli ordini non rappresentano interessi generali della collettività.
Possono tuttavia concorrere alla tutela di interessi generali nei settori del diritto e della giustizia per la piena realizzazione dello stato di diritto e dei diritti umani e fondamentali che sono alla base della società democratica, come è scritto (sinora sembra inutilmente) nel Codice deontologico europeo, nella Carta dei Principi dell’avvocato europeo e, soprattutto, nel Preambolo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Solo in questo senso ritengo che si possa configurare una rappresentanza politica senza decampare in velleitarismi e solo se di questa siano chiari il limite e l’obiettivo, e dunque la proposta di Danovi è condivisibile alla condizione che se ne realizzi il presupposto: che il Congresso, oltre a indirizzare il ruolo istituzionale, indichi le linee dell’azione nella società per la tutela dei valori sui quali si fondano i principi costituzionali della società democratica in applicazione dell’articolo 39 della legge 247/2012.
Il Consiglio nazionale forense ha certamente in questo quadro un compito di rilievo sia nel dialogo istituzionale con lo Stato e le istituzioni pubbliche che tutelano interessi generali, sia di garanzia del ruolo dell’avvocatura, unica professione menzionata nella Costituzione, per le responsabilità che tale “specialità” comporta nei massimi organi di garanzia costituzionale e della giurisdizione e nella società.
E ciò favorendo, nel convocare e regolare il congresso, come credo che intenda Danovi, la rigorosa coerenza con i ruoli che abbiamo descritto, e non già nello spirito di compromesso praticato nel passato che ha dato luogo a sovrapposizioni confuse con l’organismo eletto dal congresso proprio sul delicato terreno della rappresentanza.
In passato la contrapposizione tra la rappresentanza istituzionale del Cnf alla ricerca di un più esteso ruolo “politico” e la rivendicazione di associazioni e sindacati per una distinta e autonoma rappresentanza politica in senso ampio ha infatti animato per decenni un dibattito tra le componenti dell’avvocatura.
Al Congresso straordinario di Venezia del 1994, senza altre vie d’uscita, si approdò alla soluzione provvisoria ed evanescente, accettata bon gré mal gré da un rassegnato Cnf, per cui in attesa della riforma della professione il Congresso avrebbe istituito un organismo politico unitario autonomo di rappresentanza politica destinato a costituire in una futura legge una sezione autonoma di un Cnf rinnovato.
Come era prevedibile, l’organismo provvisorio è subito divenuto definitivo nell’attuale Oua al Congresso di Maratea del 1995, con piena autonomia di rappresentanza politica esercitata di fatto in permanente contesa con il Cnf.
Quest’ultimo, stretto tra una base molto poco interessata a un ruolo politico di vertice, e molto interessata alla rivendicazione di interessi di categoria, ha finito per non realizzare né gli uni né gli altri.
E ora sembra, da alcuni proclami e decisioni, che il Cnf sia volto a interpretare la rappresentanza in modo esclusivo quale centro di interessi professionali in forma di dialogo con il potere politico, con quali obiettivi si vedrà, ma certo spetterà al prossimo congresso di Rimini decidere prima che sia tardi.
Sulla rappresentanza, pertanto, la soluzione recepita dalla riforma del 2012 non costituisce una novità in sè perché di fatto già esisteva, anche se gestita confusamente non ha sortito effetti positivi al punto che è opinione diffusa che abbia accentuato il tradizionale immobilismo delle istituzioni forensi e contribuito a segnare il distacco tra l’avvocatura e la società, una società che non le riconosce oggi alcun ruolo di garanzia dei diritti costituzionali né alcun rilievo sociale a onta dei comunicati disseminati sui media.
Per tutto ciò il progetto di Danovi propone una svolta razionale ed equilibrata, e, se realizzato, avvierebbe un percorso virtuoso per uscire dalla crisi.
Ma occorre un profondo ripensamento sulla funzione etica e culturale dell’avvocatura nella società d’oggi, per immaginare un futuro meno avvilente soprattutto per le molte migliaia di giovani che stanno scontando gli errori del passato, e ciononostante ancora credono nella professione e in un futuro di giustizia, di eguaglianza e di pace.
È un vasto programma, come disse un noto generale, ma altrimenti temo che le buone e sagge intenzioni di Danovi finiranno per essere frustrate da coloro che stanno oggi interpretando la rappresentanza come un mestiere, anche ben retribuito; idea, del resto, al tempo d’oggi niente affatto originale. 

di Alarico Mariani Marini – Avvocato

lunedì, luglio 18, 2016

Abolizione del processo civile?

Contro il progetto che fa del rito sommario la regola generale di cognizione dei diritti civili
1. Il disegno di legge delega di riforma del processo civile approvato recentemente alla Camera prevede al numero 3) che i casi nei quali il tribunale decide in composizione collegiale siano ulteriormente ridotti rispetto ai pochi già oggi contemplati nell’art. 50 bis c.p.c. e siano per il futuro soltanto quelli in grado di giustificare una simile esigenza “in considerazione della oggettiva complessità giuridica e della rilevanza economico-sociale”.
Parimenti il rito sommario di cognizione, ridenominato “rito semplificato di cognizione di primo grado”, viene, al successivo numero 4, reso obbligatorio “per le cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica” con la sola esclusione dei procedimenti assegnati al rito del lavoro. Il disegno riformatore è dunque chiaro.
Avremo, in futuro, pochissime cause a decisione collegiale, e quelle, e solo quelle, potranno continuare a trattarsi con il rito ordinario di cognizione, ovvero con le disposizioni processuali di cui agli artt. 163 e ss. c.p.c., così come espressamente affermato all’ulteriore numero 5 del disegno di legge richiamato. Tutto il resto sarà cognizione del giudice monocratico, dinanzi al quale sarà obbligatorio presentarsi con il rito sommario di cui all’art. 702 bis e ss. c.p.c.
 Il rito sommario, ovvero il neo denominato rito semplificato, non costituirà più in questo modo una eccezione rispetto alla regola della cognizione ordinaria; tutto al contrario sarà esso stesso la regola della cognizione dei diritti in primo grado, poiché tutti i diritti in primo grado dovranno inevitabilmente essere trattati e decisi con il rito semplificato.
2. È paradossale come il rito ex art. 702 bis c.p.c., poco utilizzato (e direi poco amato) tanto dagli avvocati quanto dai giudici, abbia avuto però in questi anni sempre il favore del legislatore, fino all’apogeo di questa ultima riforma.
 Introdotto per la prima volta nel codice di procedura civile nel 2009, in quel momento costituiva solo una facoltà per le parti, che potevano, se credevano, introdurre una causa da considerare semplice in quelle forme semplificate anziché con il rito ordinario, ferma la decisione del giudice di rinviare tutto all’ordinario se il processo richiedesse una “istruzione non sommaria”.
Nel tempo, il rito sommario ha acquistato nuovi spazi: a) si è previsto che l’appello non possa essere dichiarato inammissibile nelle forme dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. se il giudizio in primo si è svolto con cognizione sommaria (art. 348 bis c.p.c.); b) si è previsto che un processo introdotto nelle forme ordinarie possa essere mutato al sommario se trattasi di controversia che può ritenersi semplice (art. 183 bis c.p.c.); c) si è previsto, con l’ultima legge di stabilità, che la parte non possa accedere al risarcimento del danno per irragionevole durata del processo se non ha utilizzato il processo sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss. c.p.c.; d) ed infine oggi si prevede che il rito sommario sia la cognizione comunemente e normalmente utilizzata per giudicare dei diritti delle parti in primo grado, e si è relegata la cognizione ordinaria a quei pochissimi casi nei quali v’è la necessità che la decisione sia assunta da un collegio.
3. Mi permetto allora di titolare questo mio breve intervento con il titolo di un celeberrimo scritto di Calamandrei apparso sulla rivista processuale nel 1938.
 Ovviamente il contesto è completamente diverso, e qui sicuramente non stiamo parlando né della Germania di Hitler né della Russia di Stalin. Quello che si intende fare, però, non è molto diverso, e mi spiego.
La differenza tra cognizione sommaria e ordinaria è presto detta. Nella cognizione sommaria (anche se furbescamente, come nel nostro caso, etichettata cognizione semplificata), il giudice “procede nel modo che ritiene più opportuno” (art. 702 ter, 5° comma c.p.c.), mentre nella cognizione ordinaria il giudice deve procedere nel rispetto delle regole fissate nel codice di procedura civile. Se procedere nel modo che (il giudice) ritiene più opportuno diventa la regola del giudizio, mentre si trasforma in eccezione la contrapposta regola secondo la quale il giudice deve procedere nel rispetto di un rito predeterminato dalla legge, allora ne consegue che siamo all’abolizione dello stesso processo, alla fine del diritto processuale civile.
A questo punto diventa anche imbarazzante avere un codice di rito di oltre 800 articoli, se la realtà è quella che in 999 controversie su 1000 il giudice potrà procedere liberamente, secondo sua discrezione. E se a ciò si aggiunge la tendenza di questi anni di limitare la motivazione delle decisioni giurisdizionali, e di limitare o escludere il controllo dinanzi ad altri giudici delle decisioni processuali, va da sé che noi non abbiamo più un diritto processuale civile, e a poco o a niente serve un codice di rito.
Anzi, provocatoriamente, dopo una riforma di questo genere si potrebbe proporre la stessa abolizione dell’insegnamento del diritto processuale civile nelle università, quanto meno come materia obbligatoria.
Se lo studente che si accinge a prendere una laurea in giurisprudenza deve solo sapere che esiste un rito c.d. ordinario ex art. 163 e ss. c.p.c., antico, cavilloso, complesso, formalista, che si adopera però (e per fortuna) nelle sole pochissime cause a riserva di collegialità, mentre per il resto si usa il moderno, semplice, agevole e duttile rito sommario, che consente al giudice di fare quello che vuole (rectius: di procedere nel modo che ritiene più opportuno), allora questo studente non ha più bisogno di un professore di diritto processuale civile, e la materia può essere tranquillamente trattata tra gli opzionali, insieme a quegli esami che gli studenti sostengono solo per far crediti.
4. La cognizione sommaria ha sempre affiancato quella ordinaria, e in tutte le esperienze giudiziarie di ogni tempo al processo ordinario di cognizione si sono addizionati uno o più processi sommari per la cognizione celere e semplificata di cause di minor valore e/o rilevanza giuridica.
 Furono i papi a decretare per primi questa possibilità, e fu Papa Clemente V nel 1306, con la famosa Clementina Saepe, a fissare i punti della cognizione sommaria, che doveva essere sempliciter et de plano, sine strepitu et figura iudicii. La legislazione comunale e statutaria del basso medioevo recepì questo fenomeno, che si protrasse per tutto l’anciem régime, fino ad arrivare alle moderne codificazioni e ai tempi nostri.
Nessuno, però, aveva prima d’ora pensato che la cognizione sommaria potesse trasformarsi nella regola della cognizione dei diritti, e quella ordinaria nell’eccezione; nessuno aveva mai pensato che la cognizione sommaria potesse estendersi a tutte le controversie di primo grado, salve sporadiche ipotesi residuali. L’idea dell’ultimo disegno di legge è pertanto assolutamente rivoluzionaria, perché, per la prima volta, pensa proprio di fare una cosa del genere.
E non riesco a capire come una novità così dirompente possa passare sotto silenzio, non capisco come sia possibile che non si avverta l’esigenza di ricordare al legislatore che costituisce garanzia di tutti i cittadini avere la predeterminazione legale del processo, così come peraltro contemplato nell’art. 111 Cost. E duole dover ricordare cose che si darebbero per acquisite, e battersi per garanzie che non dovrebbero essere messe in discussione da alcuno.
Costituisce infatti garanzia di civiltà quella di poter conoscere previamente le modalità di svolgimento dell’attività giurisdizionale, di modo che ogni cittadino possa far conto, quando varca la soglia di una aula giudiziaria, proprio su quello svolgimento del processo così come regolato dalla legge. Se la legge rinuncia a regolare il processo, e le sue modalità di svolgimento sono rimesse alla discrezionalità del giudice, li, come già avvertì Calamandrei, si rischia di arrivare alla “abolizione del diritto stesso, almeno in quanto l’idea del diritto si riconnette alla garanzia di certezza e di eguaglianza, conquista insopprimibile della civiltà”.
5. Si dirà che il rito ex art 702 bis e ss. c.p.c. non è un rito sommario ma un rito semplificato, che la cognizione del giudice che sfocia nell’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. è piena e affatto diversa da quella che scaturisce da una sentenza, e che la semplificazione del rito consente al giudice di adattare i tempi del processo alle caratteristiche proprie di ogni controversia, nel rispetto di un principio di economia processuale, oggi quanto più necessaria atteso il carico di lavoro degli uffici giudiziari. Qualche comparatista dirà poi che è così anche all’estero, e proverà a dimostrarlo.
La verità è che chi affermi cose di questo genere o non ha esperienza di attività giudiziarie, oppure fa finta di non capire qual è il problema. Non si tratta, infatti, di stabilire se la cognizione sommaria (o semplificata che dir si voglia) sia piena o equiparabile o meno a quella ordinaria.
Si tratta di sottolineare che se la cognizione del processo procede a discrezione del giudice, la parte non ha più alcuna garanzia circa il diritto alla difesa, al contraddittorio e alla prova, perché non ha alcuna garanzia che contro di lui non si creino a sorpresa preclusioni che non sono previste nel codice, non ha (soprattutto l’attore ricorrente) garanzie circa la possibilità, i tempi e i modi di coinvolgere nel processo soggetti terzi, o di proporre controdomande, non ha più garanzia di poter scrivere memorie istruttorie e aver tempo e possibilità di controdedurre mezzi di prova, non ha garanzie circa i tempi di produzione dei documenti, non ha garanzie circa la possibilità di depositare comparse conclusionali o altri scritti difensionali.
Ed ancora, se il rito sommario diventa la regola, e anche dinanzi a cause che possono ritenersi complesse non v’è la possibilità di convertire il rito all’ordinario, diventano allora incerti una serie infinita di istituti processuali, che sono oggi disciplinati nel rito ordinario di cognizione, e che il giudice del sommario potrebbe non rispettare in favore del suo potere di regolare lo svolgimento del processo in modo libero.
E si pensi, ad esempio, alle regole dell’assunzione delle prove testimoniali fino a quelle di svolgimento di una CTU, dall’interrogatorio formale alla confessione, dall’esibizione dei mezzi istruttori al disconoscimento delle scritture, dalla nullità degli atti processuali alla sanatoria (e agli effetti della sanatoria) degli stessi, dalla contumacia all’interruzione e estinzione del processo, dalla sospensione per pregiudizialità alla successione a titolo particolare nel diritto controverso, ecc…..; e dubbi interpretativi potrebbero sorgere anche con riferimento a disposizioni che stanno nel primo libro del c.p.c.: dalla litispendenza alla connessione, dalla ricusazione del giudice alla disciplina delle spese, financo dalla competenza del giudice alle regole dell’esercizio dell’azione.
Si darà che tutte queste disposizioni si applicheranno per analogia, così come sono scritte, anche nel rito sommario. Può essere. Ma la garanzia per il cittadino non sta nella circostanza che il giudice lo possa fare, bensì che il giudice lo debba fare.
La trasformazione della cognizione sommaria in regola della cognizione dei diritti trasforma infatti al tempo stesso il dovere del giudice in un potere del giudice. E questo è quello che, con ogni forza, dobbiamo evitare, pena altrimenti la vanificazione del principio di legalità, certezza del diritto, predeterminazione delle regole processuali, esistenza di uno stesso diritto processuale civile.
Inutile poi aggiungere che queste garanzie vanno assicurate anche dinanzi al giudice più integerrimo, preparato ed equilibrato, poiché è di nuovo garanzia di tutti i cittadini che l’equilibrio nel processo non sia assicurato dal “giudice bravo”, bensì proprio e direttamente dalla legge.
6. È così impensabile, a mio parere, che il processo ordinario di cognizione non si introduca più – quale regola generale – con la citazione ex art. 163 c.p.c., bensì con il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. Ciò costituirebbe una sorta di abolizione del processo civile, e trasformerebbe il codice di procedura civile in un libretto di consigli per il giudice, e non già di regole legali necessariamente da rispettare.
Purtroppo, già da un po’ di tempo v’è l’idea che il codice di procedura civile sia solo un libretto di consigli privi di vincolatività, se si considera, ripeto ancora, la tendenza a non motivare le decisioni processuali, e ad impedire ogni controllo su di esse, anche in cassazione.
Questa ultima riforma confermerebbe fortemente questa deprecabile tendenza. Mi auguro che contro questo progetto non si alzi solo la mia voce.
18 luglio 2016

di Giuliano Scarselli 
Ordinario di diritto processuale civile nell’Università di Siena

domenica, luglio 10, 2016

Abuso del processo: ricorso in Cassazione per una differenza di pena pecuniaria di €. 8!


Cassaz. Penale Sent. Sez. 2 Num. 25663 Anno 2016 - Presidente: FIANDANESE  Relatore: D'ARRIGO - Data Udienza: 15/06/2016 .
SENTENZA 
sul ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Salerno nei confronti di: - DI RENNA Filomena, nata a Piaggine (SA) il 1° luglio 1953
avverso la sentenza del Giudice di pace di Sant'Angelo a Fasanella del 26 settembre 2015, n. 12/15. Sentita la relazione svolta dal consigliere dott. Cosimo D'Arrigo;
udito il Sostituto Procuratore Generale, in persona del dott. Alfredo Pompeo Viola, che ha concluso per l'annullamento con rinvio limitatamente alla determinazione della pena;
RITENUTO IN FATTO 
Il Giudice di pace di Sant'Angelo a Fasanella con sentenza del 26 settembre 2015, ha condannato Filomena Di Renna alla pena di euro 200,00 di multa per il delitto di cui all'art. 636 cod. pen. Propone ricorso il Procuratore Generale osservando che, ai sensi dell'art. 52, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000, il limite minimo di pena sarebbe dovuto essere euro 258,00. 
CONSIDERATO IN DIRITTO 
L'impugnazione è fondata.
Infatti, l'art. 52, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000 (Competenza penale del giudice di pace), prevede che per i reati diversi da quelli per i quali è prevista la sola pena della multa o dell'ammenda, «le pene sono così modificate: a) quando il reato è punito con la pena della reclusione o dell'arresto alternativa a quella della multa o dell'ammenda, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da € 258 a € 2.582; se la pena detentiva è superiore nel massimo a sei mesi, si applica la predetta pena pecuniaria o la pena della permanenza domiciliare da sei giorni a trenta giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità per un periodo da dieci giorni a tre mesi».
Il reato di introduzione o abbandono di animali (art. 636, comma 2, cod. pen.) prevedeva la pena alternativa della reclusione o della multa. Consegue che, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 274 del 2000, la pena deve intendersi "modificata" nella misura indicata dal menzionato art. 52, comma 2, lett. a).
La pena inflitta con la sentenza impugnata è quindi illegale.
P.Q.M. 
annulla la sentenza impugnata relativamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio al Giudice di pace di Sant'Angelo a Fasanella per la rideterminazione della pena.
Sentenza a motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 15 giugno 2016.