venerdì, aprile 27, 2018

TARIFFE FORENSI: MAI PIÙ SOTTO I MINIMI.

Sono operativi da oggi i nuovi parametri sui compensi degli avvocati. Con l’approdo nella Gazzetta ufficiale di ieri (n. 96) del decreto 37/2018, non sarà più possibile, nelle liquidazioni, scendere sotto le soglie di “sbarramento” minime dettate dalla norma.
Un altro passaggio importante del decreto riguarda la sostituzione delle vecchie tabelle, fissate dal decreto 55/2014, per i procedimenti di mediazione e di negoziazione assistita.
Il decreto supera, in linea con il parere fornito da Consiglio di Stato nel dicembre scorso, ogni equivoco sulla possibilità per il giudice di scendere sotto i minimi. Nel nuovo testo è confermata la possibilità del taglio del 70% per l’attività svolta nella fase istruttoria e del 50% per le altre fasi, ma viene eliminata la locuzione «di regola» .
Nella versione finale del decreto viene, infatti, chiarito che la diminuzione non può andare «in ogni caso» oltre il 50 per cento.
Nel decreto anche le tabelle, che mancavano nel vecchio testo, che dettano i compensi per la mediazione e la negoziazione assistita, stabiliti per fasi: attivazione, negoziazione e conciliazione e condizionati dal valore della causa.
I valori spaziano dai 120 euro per una negoziazione riferita a una causa del valore di 1.100 euro fino ai 2.610 se la querelle ha un valore che oscilla tra i 260 mila euro e i 520 mila.
Nel caso di conciliazione il compenso, nella causa di più modesto valore è di 180 euro e lievità a 3.915 se l’“accordo” riguarda lo scaglione di massimo valore.
Tabelle ad hoc anche per i giudizi davanti al Consiglio di Stato con criteri che comprendono i vari step: dallo studio alla fase cautelare. Per quanto riguarda la materia penale è previsto che la liquidazione del compenso sia estesa anche alla fase procedimentale considerando dunque anche il caso in cui il procedimento non sfoci in un giudizio.
Un ulteriore tassello riguarda aumenti e diminuzioni, previste quando un avvocato difende più soggetti con la stessa posizione processuale, che scattano anche quando il numero dei «soggetti» (e non più delle «parti») è incrementato per effetto della riunione di più procedimenti.
C’è inoltre un “premio” per i legali che aiutano i giudici usando Internet in modo efficace.
Il compenso può essere aumentato del 30%, rispetto al valore previsto, quando gli atti, depositati con modalità telematiche sono redatti «con tecniche informatiche idonee ad agevolare la consultazione o la fruizione e, in particolare, quando esse consentono la ricerca testuale all’interno dell’atto e dei documenti allegati, nonché la navigazione all’interno dell’atto».

(di Patrizia Maciocchi, Il Sole 24Ore, 27.4.2018)

venerdì, aprile 20, 2018

Compensazione spese di lite: dichiarato parzialmente incostituzionale l'art. 92 cpc.

Il giudice civile, in caso di soccombenza totale di una parte, può compensare le spese di giudizio, parzialmente o per intero, non solo nelle ipotesi di “assoluta novità della questione trattata” o di “mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti” ma anche quando sussistono “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.
È quanto si legge nella la sentenza n. 77 depositata il 19 aprile 2018 (relatore Cons. Giovanni Amoroso), con cui la Corte costituzionale ha ampliato il perimetro della compensazione delle spese rispetto alla riduzione effettuata dal legislatore nel 2014 allo scopo di contenere il contenzioso civile.
Il Decreto legge 132/2014, convertito nella legge n. 162/2014, aveva infatti sostituito la clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni” — con cui il giudice poteva derogare alla regola delle spese di lite a carico della parte totalmente soccombente — con due ipotesi tassative (oltre, naturalmente, quella della soccombenza reciproca): “l’assoluta novità della questione trattata” e il “mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti”.
Una tassatività che ora la Corte costituzionale ha ritenuto lesiva del principio di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto lascia fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa. Il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”, ad esempio, significa che c’è stato un mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti.
Il che, però, può verificarsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia, senza che nulla possa addebitarsi alle parti. Basti pensare a una norma di interpretazione autentica o a uno ius superveniens con effetto retroattivo; a una sentenza di illegittimità costituzionale; alla decisione di una Corte europea; a una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea o altre analoghe sopravvenienze, sempre che incidano su questioni dirimenti.
Si tratta di ipotesi connotate dalla stessa “gravità” ed “eccezionalità”, pur non essendo iscrivibili in un rigido catalogo di casi, e che debbono essere rimesse necessariamente alla prudente valutazione del giudice della controversia.
Stesso discorso per l’altra fattispecie prevista dalla disposizione censurata — “l’assoluta novità della questione” — riconducibile, più in generale, a una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza e in relazione alla quale si possono ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, anch’esse riconducibili a “gravi ed eccezionali ragioni”.
Di qui l’illegittimità costituzionale dell’articolo 92, secondo comma, del Codice di procedura civile “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”. La Corte ha invece dichiarato non fondato il particolare profilo di censura che faceva riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso.
Il Tribunale di Reggio Emilia sosteneva che la disposizione sulla compensazione delle spese non tiene conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa, ossia del rapporto di lavoro subordinato e della condizione soggettiva del lavoratore quando è lui che agisce nei confronti del datore di lavoro.
Secondo la Corte, però, la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste) nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non giustifica, di per sé, una deroga all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente, e ciò pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (articolo 3, secondo comma, Costituzione).
La Corte ha però precisato che, in conseguenza della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’articolo 92 Cpc, rientrano nella valutazione del giudice anche le ipotesi in cui il lavoratore debba promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi rilevanti e decisivi nella disponibilità del solo datore di lavoro (c.d. contenzioso a controprova).
Il giudice dovrà, in particolare, verificare se vi sia o meno una situazione di assoluta incertezza su questioni di fatto, eventualmente riconducibili alle “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono la compensazione delle spese di lite.

lunedì, aprile 09, 2018

L’atto d’appello civile non deve essere (ex art. 342 cpc) una “proposta di sentenza”.

Cass. Civ. Sez. I Ord. num. 8571/2018 - Presidente: TIRELLI Relatore: MARULLI - Data pubblicazione: 06/04/2018 - Roma Capitale c/ Società' Casa di Dante. 

 “(….) La tesi ricorrente secondo cui «l'atto di appello, ai sensi dell'art. 342 cpc, deve essere costruito come una proposta di sentenza» non incontra il favore di questa Corte. Come, infatti, si era già divisato a sezioni semplici, sconfessandosi a più riprese, sul filo dell'opinione che la novella non avesse mutato la natura del giudizio d'appello e si ponesse perciò in linea di continuità con la pregressa giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. Ili, 16/05/2017, n. 11999), l'idea che l'individuazione di «un percorso logico alternativo a quello del primo giudice» (Cass., Sez. IV, 5/02/2015, n. 2143), cui deve tendere l'atto di gravame secondo la nuova formulazione dell'art. 342 cod. proc. civ. non deve necessariamente tradursi in un «progetto alternativo di sentenza» (Cass., Sez. VI-III, 12/9/2017, n. 21134) e diffidandosi segnatamente, in questa chiave, dall'accedere a linee di lettura che ostino alla piena espansione sul piano interno del principio di effettività della tutela giuridizionale (Cass., Sez. III, 5/05/2017, n. 10916), è ora convinzione che si vale del superiore conforto delle SS.UU. (Cass., Sez. U, 16/11/2017, n. 27199) che le modifiche introdotte dalla novella del 2012, lungi dallo sconvolgere i tradizionali connotati del giudizio d'appello, abbiano in effetti «recepito e tradotto in legge» i consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità in materia, ribadendo in particolare l'esigenza che l'atto introduttivo di esso contenga «una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice». Ciò però esclude che l'individuazione di un «percorso logico alternativo a quello del primo giudice», debba necessariamente tradursi in un «progetto alternativo di sentenza». Invero «il richiamo, contenuto nei citati artt. 342 e 434, alla motivazione dell'atto di appello non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del giudice nella stesura della motivazione di un provvedimento decisorio. Quello che viene richiesto - in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata - è che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili. Tutto ciò, inoltre, senza che all'appellante sia richiesto il rispetto di particolari forme sacramentali o comunque vincolate». Dunque, come già in passato, il nuovo dettato dell'art. 342 cod. proc. civ., impone all'appellante d’individuare con la dovuta chiarezza, per mezzo dell'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare, i temi decisionali da sottoporsi al vaglio del decidente d'appello, in modo tale da delimitare l'area del giudizio di impugnazione in ossequio al principio tantum devolutum quantum appellatum, da ciò segue che anche alla luce del testo novellato la postulazione appellante dovrà procedere ad una propria rivisitazione del materiale istruttorio, ove la contestazione abbia ad oggetto la ricostruzione dei profili fattuali della vicenda, mentre dovrà curarsi di indicare le circostanze di fatto che rendono possibile una diversa soluzione giuridica di essa nel caso in cui oggetto di critica siano i profili in diritto della decisione”.