domenica, agosto 30, 2020

L’apposizione di condizione sospensiva potestativa mista al contratto.

 

Cassazione Civile – II Sezione – sentenza n. 18031/2020 pubblicata il 28 agosto 2020 – Presidente: Oricchio – Relatore: Criscuolo.

“Questa Corte ha anche di recente affermato (Cass. n. 22046/2019) che, ove le parti subordinino gli effetti di un contratto alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per potere pagare in tutto o in parte il prezzo stabilito, tale condizione è qualificabile come "mista", dipendendo la concessione del mutuo anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la pratica. Tuttavia, la mancata erogazione del prestito comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente, sia perché questa disposizione è inapplicabile qualora la parte tenuta condizionatamente ad una data prestazione abbia interesse all'avveramento della condizione (cd. condizione bilaterale), sia perché l'omissione di un'attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto essa costituisca oggetto d’un obbligo giuridico, e la sussistenza di un siffatto obbligo deve escludersi per l'attività di attuazione dell'elemento potestativo in una condizione mista (in senso conforme Cass. n. 18512/2017 che ribadisce che la condizione può ritenersi apposta nell'interesse di uno solo dei contraenti solo in presenza di una clausola espressa in tal senso o di elementi che inducano a ritenere che l'altra parte non abbia alcun interesse al suo verificarsi. Ne consegue che l’art. 1359 c.c., secondo cui la condizione del contratto si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, non è applicabile nel caso in cui la parte, tenuta condizionatamente ad una determinata prestazione, abbia anch'essa interesse al verificarsi della condizione). In senso conforme si veda anche Cass. n. 16620/2013, secondo cui la norma dell’art. 1359 cod. civ., secondo cui la condizione del contratto si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento, non è applicabile nel caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una determinata prestazione abbia anch'essa interesse all'avveramento di essa. La condizione può ritenersi apposta nell'interesse di una sola delle parti contraenti soltanto quando vi sia un'espressa clausola contrattuale che disponga in tal senso  ovvero allorché - tenuto conto della situazione riscontrabile al momento della conclusione del contratto - vi sia un insieme di elementi che nel loro complesso inducano a ritenere che si tratti di condizione alla quale l'altra parte non abbia alcun interesse; in mancanza, la condizione stessa deve ritenersi apposta nell'interesse di entrambi i contraenti (conf. Cass. n. 6423/2003; Cass. n. 23824/2004)”.

sabato, agosto 15, 2020

Vendita immobile: mancanza certificato d’abitabilità ed aliud pro alio.

 

Cass. Civ. Sez. II – sent.  n. 17123/2020 dep. il 13 ago.2020 – Pres.:  D’Ascola – Estensore: Besso Marcheis.

 “È principio affermato da questa Corte che nella vendita di immobili destinati ad abitazione, pur costituendo il certificato di abitabilità un requisito giuridico essenziale ai fini del legittimo godimento e della normale commerciabilità del bene, "la mancata consegna di detto certificato costituisce un inadempimento del venditore che non incide necessariamente in modo dirimente sull'equilibrio delle reciproche prestazioni" (Cass. 6548/2010). Così che, sempre secondo l'orientamento di questa Corte, "il successivo rilascio del certificato di abitabilità esclude la possibilità stessa di configurare l'ipotesi di vendita di aliud pro alio" (ancora Cass. 6548/2010; da ultimo, in riferimento alla locazione, v. Cass. 16918/2019). Nel caso in esame, in cui è pacifico il successivo rilascio del certificato, è pertanto da escludersi che il bene immobile acquistato  possa essere considerato altro rispetto a quello convenuto tra le parti”.

martedì, agosto 04, 2020

Condominio: i criteri legali di riparto delle spese, proporzionali alle singole carature millesimali, sono inderogabili.

Cass. Civ. II Sez.  ord. 16531/2020 del  31 luglio 2020.

 “Le spese di riparto delle spese condominiali sono legittimamente ripartite in base al valore millesimale delle singole unità immobiliari servite, che ne consente il riparto in proporzione ad esso (Cass. 7 novembre 2016 n. 22573, in relazione ad impianto di riscaldamento).

Più in generale, si è detto che le spese comuni devono essere suddivise in misura proporzionale al valore delle singole proprietà, attesa l'insussistenza di una concorde deroga convenzionale al regolamento condominiale, con la conseguente applicazione, nel caso di specie, della generale previsione trasparente dall'art. 1123 c.c., comma 1, (cfr. Cass. n. 2301 del 2001; Cass. n. 17101 del 2006 e Cass. n. 6714 del 2010).

In altri termini, le delibere delle assemblee di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, con le quali si deroga - "una tantum" - ai criteri legali di ripartizione delle spese medesime, ove adottate senza il consenso unanime dei condomini, sono nulle.

Deve, quindi, riaffermarsi il principio di diritto alla stregua del quale, in mancanza di diversa convenzione adottata all'unanimità, espressione dell'autonomia contrattuale, la ripartizione delle spese condominiali generali deve necessariamente avvenire secondo i criteri di proporzionalità, fissati nell'art. 1123 c.c., co. 1, e, pertanto, non è consentito all'assemblea condominiale, deliberando a maggioranza, di ripartire con criterio "capitario" le spese necessarie per la prestazione di servizi nell'interesse comune.

Invero, deve ritenersi affetta da nullità (che può essere fatta valere dallo stesso condomino che abbia partecipato all'assemblea ancorché abbia nella stessa espresso voto favorevole), e quindi sottratta al termine di impugnazione di giorni trenta previsto dall'art. 1137 c.c., la delibera dell'assemblea condominiale con la quale senza il consenso di tutti i condomini si modifichino i criteri legali ex art.1123 c.c. o di regolamento contrattuale di riparto delle spese per la prestazione di servizi nell'interesse comune.

Ciò in quanto eventuali deroghe, venendo ad incidere sui diritti individuali del singolo condomino attraverso un mutamento del valore della parte di edificio di sua esclusiva proprietà, possono conseguire soltanto da una convenzione cui egli aderisca.

Infatti, l'adozione di criteri diversi da quelli previsti dalla legge o dal regolamento contrattuale, incidendo sui diritti individuali dei singoli condomini, può essere assunta soltanto con una convenzione alla quale aderiscano tutti i condomini, non rientrando nelle attribuzioni dell'assemblea che concernono la gestione delle cose comuni.

Pertanto, erroneamente i giudici di appello hanno escluso che ricorra la nullità della delibera condominiale quando l'assemblea del condominio proceda a una modificazione dei criteri di riparto non in via definitiva ma soltanto contingente e riferita a spese straordinarie: l'assemblea - in mancanza di un accordo unanime dei condomini - non ha il potere di stabilire o modificare i criteri di riparto delle spese in violazione delle prescrizioni stabilite dall'art. 1123 c.c., secondo cui i contributi devono essere corrisposti dai condomini in base alle tabelle millesimali, atteso che - come si è accennato - tale determinazione non rientra nelle attribuzioni conferite all'assemblea dall'art. 1135 c.c..

In tal senso è il costante orientamento di legittimità, che il Collegio pienamente condivide e dal quale non ravvisa comunque ragione alcuna per discostarsi (ex plurimis, Cass. n. 1511 del 1997; Cass. n. 126 del 2000; Cass. n. 2301 del 2001 cit.; Cass. n. 3944 del 2002; Cass. n. 64 del 2003; Cass. n. 17101 del 2006 cit.; Cass. n. 6714 del 2010 cit.)”.