lunedì, aprile 30, 2007

In ricordo di un martire dell'Avvocatura: Fulvio Croce.


"Giovedì 28 aprile alle ore 15, un nucleo armato delle Brigate Rosse ha giustiziato il servo di stato Fulvio Croce, Presidente dell'Ordine degli Avvocati di Torino. (....) La sua ultima operazione controrivoluzionaria è stata l'assunzione della difesa di militanti della nostra Organizzazione al Tribunale Speciale di Regime nel processo iniziato il 17/05/1976 dell'Assise di Torino (....)".

Con queste parole iniziava il farneticante comunicato delle Brigate Rosse, con il quale veniva rivendicato l'assassinio dell'Avvocato Fulvio Croce, avvenuto 30 anni fa.

Pubblichiamo qui di seguito un breve scritto dell'Avv. Franzo Grande Stevens, per onorare la memoria di un grande Collega, che ha dato la vita per onorare la Toga.

"Figlio del medico condotto di Castelnuovo Nigra e di una donna che Gli assomigliava nella tempra e visse tanto a lungo da accompagnarlo fin quasi alla Sua morte, dopo la parentesi dell' impresa fiumana che a 17 anni rivelò la forza della Sua passione, - giunse alla facoltà di giurisprudenza torinese.

«Trascinatore ed animatore» era scritto nelle sue note caratteristiche da militare e lo dimostrò quando nel 1968 assunse la Presidenza del Consiglio dell’Ordine forense torinese.

Fu rieletto ogni biennio con i maggiori suffragi. Ma la serenità della sua lunga presidenza, così alacre e fattiva, venne bruscamente interrotta quando nel maggio 1976 alla Corte d’Assise di Torino gli esponenti delle Brigate Rosse revocarono il mandato ai loro difensori di fiducia e minacciarono in caso di accettazione dell’incarico gli avvocati nominati d’ufficio.

In Consiglio dell’Ordine, convocato ad horas, fu concorde: toccava al governo dell’Ordine assumere il non lieve peso della difesa d’ufficio.

Si poteva rifiutare invocando la regola — art. 6 — appositamente dettata dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo cui l’Italia aveva aderito, la quale attribuiva il diritto all’imputato di scegliersi un difensore o difendersi da sé, nonché le esperienze e gli insegnamenti che in situazioni identiche venivano da paesi di grande civiltà (come il Regno Unito, gli USA, il Canada). In questi paesi si riconosceva e sottolineava che nel contrasto di posizioni master della difesa era e doveva essere l’imputato (capace) mentre l’avvocato era e doveva rimanere il suo assistente e non viceversa. In tal caso l’avvocato poteva essere chiamato (come da una Corte canadese) non come difensore; ma come amicus curiae perché nell’interesse della collettività si riducesse il margine di errori nel processo: chiamato cioè come garante di legalità. Nei Paesi ad ispirazione autoritaria; invece (come in URSS o nella Spagna franchista) il difensore di ufficio (o di Stato) era obbligatorio e leggi particolari prevedevano numerosi supplenti in caso di rifiuto da parte dell’imputato.

La nostra Costituzione riconosce il diritto inviolabile del cittadino alla difesa (così come gli riconosce quello alla salute, alla libera associazione, alla libertà di religione, alla libertà di pensiero, ecc.) ma non gli impone l’obbligo di difendersi e per di più secondo certe regole (così come non impone al cittadino consapevole di subire una trasfusione di sangue, o altre cure tecniche, non lo obbliga ad associarsi, o a professare una religione, o a manifestare il suo pensiero, ecc.).

Tuttavia gli avvocati torinesi con Fulvio Croce alla guida, assunsero la difesa d'ufficio, così interpretando il loro ruolo e la loro dignità, e pur sapendo che non sarebbe stata gradita né agli spiriti faziosi né, soprattutto a coloro che volevano definirli «servi di regime» dettero quest’ultima risposta. E Fulvio Croce pagò con la vita.

a Franzo Grande Stevens, Vita di un avvocato, Cedam Padova, 2000, p. 205

domenica, aprile 29, 2007

Lavori consiglio: celebrazione processi disciplinari.


ORDINE del GIORNO

Tornata del 15 maggio 2007 ore 16,00

1) Celebrazione procedimento disciplinare a carico Avv.G.C. (Rel.Cons.Avv.Corona);

2) Celebrazione procedimento disciplinare a carico Avv.G.E. (Rel.Cons.Avv.Spirito).




ORDINE del GIORNO

Tornata del 05 giugno 2007 ore 16,00

1) Celebrazione procedimento disciplinare a carico Avv.M.S.(Rel.Cons. Avv.Corona);

2) Celebrazione procedimento disciplinare a carico Avv.G.D.(Rel.Cons. Avv.Molinara);

3) Celebrazione procedimento disciplinare a carico Avv.C.V.(Rel.Cons. Avv.Paolino);

4) Celebrazione procedimento disciplinare a carico Avv.G.F. (Rel.Cons. Avv.Toriello);

5) Celebrazione procediemnto disciplinare a carico Dott.G.A.(Rel.Cons. Avv.Visconti);


I Consiglieri sono invitati a predisporre gli atti prodromici alla celebrazione dei procedimenti.


Il Presidente

Avv. Americo Montera


Il Consigliere Segretario

Avv. Silverio Sica

sabato, aprile 28, 2007

Di Pietro:ministro immobiliarista?



Abbiamo imparato a conoscere Antonio Di Pietro come un ministro che si oppone al governo, oggi lo “scopriamo” come ministro che si presta ad azioni che lui stesso, in altri tempi, avrebbe perseguito penalmente.

La lettura della denuncia dei redditi dei parlamentari svela infatti alcune operazioni che il presidente dell’Italia dei Valori ha portato avanti a dispetto di quei principi che predica e con metodi che lui stesso perseguiva quando indossava la toga nel tribunale di Milano. L’“affare” in questione riguarda l’acquisto da parte della società An.to.cri. srl di proprietà di Di Pietro di un appartamento a Milano e di un mutuo acceso presso la Bnl.

Fin qui tutto bene. Ma poi si scopre che l’immobile è stato affittato all’Idv, il suo partito, il quale versa un canone superiore alle rate del mutuo stesso.

La stessa operazione viene ripetuta a Roma. Insomma l’integerrimo magistrato di Mani Pulite, il persecutore dei corrotti e dei furbetti, oggi ministro delle infrastrutture, fa un doppio affare: compra per sé degli immobili che diventano un investimento e li fa pagare all’Italia dei Valori. Partito che “campa” grazie ai contributi degli iscritti e al finanziamento pubblico dei partiti (cioè tutti noi).

Verrebbe da dire che, a furia di inseguire i furbetti, Di Pietro abbia imparato bene l’arte e l’abbia messa da parte.

Gianpaolo Nuvoli è il nuovo Direttore Generale del Dipartimento degliAffari di Giustizia del Ministero di via Arenula.



È stato nominato, su proposta del Guardasigilli Mastella, con decreto del presidente del Consiglio Ministri. Il provvedimento di nomina è già esecutivo.

Nuvoli, 52 anni, laurea in giurisprudenza e master post universitario in materie amministrative, già parlamentare per due legislature e consigliere regionale, è originario di Ardara (SS).

La direzione generale del “contenzioso e dei diritti umani” ha specifiche competenze, fra l’altro, sulle questioni concernenti il contenzioso relativo ai diritti umani in materia sia civile che penale, il contenzioso in materia di responsabilità civile dei magistrati, procedure relative all’osservanza di obblighi internazionali aventi ad oggetto la protezione dei diritti dell’uomo.

Il Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, intende anche avvalersi della sua esperienza per tutte le problematiche relative alla Giustizia in Sardegna.

giovedì, aprile 26, 2007

No alle tette di Stato!








L’onorevole Guadagno, meglio nota come Vladimir Luxuria, ha affidato alla chirurgia estetica il compito di rettificare il naso ed impiantare il seno. Niente da dire, nulla da eccepire. Affari suoi.

Conservo l’opinione che il ricorso alla chirurgia estetica, quando non sia reso necessario da incidenti o difficoltà oggettive, sia il segno di una certa debolezza, e constato che signore e signori ne escono, talora, sfigurati. Ma restano affari loro.

Nel caso del parlamentare, però, si pone un problema politico per l’avere ella annunciato che chiederà allo Stato di sobbarcarsi, per lei e per tutti, la spesa per queste ed analoghe operazioni, raccogliendo anche il frettoloso consenso del ministro della sanità. Sono contrario.

La neosenodotata onorevole è stata eletta nelle liste di Rifondazione Comunista, ma anche in una visione postmoderna e neoedonistica dell’operaismo faccio fatica ad immaginare che si debba tassare tutti per dotare alcuni delle tette.

E, del resto, volendo aderire al disgustoso egualitarismo imposto dal politicamente corretto, ne deriverebbe che si dovrebbe comunque tassare tutti per aiutare altri ad avercelo di dimensioni paragonabili a quelle di un pornodivo, probabile icona di riferimento.

Il che, una volta aumentato peso, volume e dimensioni, porrebbe l’ulteriore problema di assicurarne la consistenza, imponendo una terapia a vita con vasodilatatori, trasformando i malcapitati in altrettanti Puffi. E sebbene tutto mi pare oscilli fra l’incubo ed il ridicolo, sebbene mi rattristi un mondo dal quale sparisca il dramma brancatiano del bello e giovane Antonio, comunque mi pare una solenne cretinata che io debba pagare quota parte di codeste follie.

Il cielo mi protegga dai moralismi un tanto al chilo, ma ho come l’impressione che la spesa sanitaria sia già piuttosto appesantita e troverei singolare rifiutare l’assistenza ai cardiopatici od ai bambini.

Dato che quella spesa va tagliata, penso sia meglio indirizzarla verso i malati, piuttosto che verso i sani desiderosi d’ammalarsi per alimentare, a spese altrui, il narcisismo. Dice l’onorevole Guadagno: l’ho fatto per il mio equilibrio.

Brava, ma abbia rispetto anche del nostro. E faccia una buona cosa: non chieda il rimborso neanche alla Camera dei Deputati. Si tenga stretti i cavoli suoi.

Scritto da Davide Giacalone

www.davidegiacalone.it
Pubblicato da Libero

Caratteri del c.d. "diritto di cronaca".




Il diritto di cronaca (e di critica) è la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti, anche lesivi della reputazione, sancito in linea di principio dall’art. 21 Cost. e regolato dalla L. 8 febbraio 1948 n. 47.

Esso è considerato legittimamente esercitato dalla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità quando ricorrano le seguenti condizioni:

a) utilità sociale dell’informazione;

b) verità (oggettiva o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti, che non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o anche solo colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente collegati ai primi da mutarne completamente il significato;

c) forma civile dell’esposizione, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da perseguire, improntata a serena obiettività, almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui tutti hanno diritto (continenza).

(Cassazione Sezione Terza Civile sent. n. 6973 del 22 marzo 2007, Pres. Fiduccia, Rel. Marrone).

IL GIUDICE DI PACE, PRIMA DI DECIDERE, DEVE INVITARE LE PARTI A PRECISARE LE CONCLUSIONI.



A garanzia del diritto di difesa, il Giudice di Pace, pur non essendo tenuto a fissare un’udienza ad hoc per la precisazione delle conclusioni, deve pur sempre consentire alle parti tale imprescindibile attività processuale.

Pertanto egli non può, a pena di nullità per violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., pronunciare sentenza subito dopo essersi riservato di provvedere sulle deduzioni delle parti, senza averle previamente invitate a precisare, nella stessa o in una successiva udienza, le rispettive conclusioni.

(Cassazione Sezione Terza Civile sentenza n. 5096 del 6 marzo 2007, Pres. Vittoria, Rel. Amatucci).

mercoledì, aprile 25, 2007

martedì, aprile 24, 2007

Consiglio dei Ministri: giro di vite contro i reati ambientali.


Il Consiglio dei Ministri ha oggi approvato, su proposta dei ministeri dell'Ambiente e della Giustizia, il Ddl eco-reati che contiene le disposizioni concernenti i delitti contro l'ambiente e dà la delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della relativa disciplina.

Multe fino a 250 mila euro e carcere fino a un massimo di dieci anni, più le aggravanti: sono solo alcuni dei punti del ddl approvato dal Consiglio dei Ministri. Si tratta in tutto di 5 articoli.

Alla base del provvedimento l'offensività del reato e la strutturazione dei reati a seconda del crescente grado di offesa al bene giuridico tutelato: dal pericolo concreto, al danno, fino al disastro ambientale.

È lotta anche alle Ecomafie: introdotti i reati di associazione a delinquere finalizzata al crimine ambientale.

I NUOVI REATI

Più in particolare il provvedimento introduce all’articolo 1, i seguenti nuovi reati con le relative pene:

Inquinamento ambientale (articolo 452-bis) punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro;

Danno ambientale, pericolo per la vita e l’incolumità personale (articolo 452-ter) punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 20.000 a 60.000 euro;

Disastro ambientale (articolo 452-quater) punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da 30.000 a 250.000 euro;

Alterazione del patrimonio naturale, della flora e della fauna (articolo 452-septies) punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 10.000 a 30.000 euro;

Traffico di materiale radioattivo o nucleare e abbandono di materiale radioattivo o nucleare (articolo 452-octies) punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 50.000 a 250.000 euro;

Delitti ambientali in forma organizzata (articolo 452-nonies) costituisce una aggravante della pena prevista per la fattispecie delittuosa configurata come “associazione per delinquere”;

Frode in materia ambientale (articolo 452-decies) punita con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa fino a 10.000 euro;

Nel caso in cui i predetti delitti vengano commessi dal soggetto soltanto per “colpa” le relative pene sono diminuite della metà.

Sono, inoltre, previste delle pene accessorie quali la confisca e la bonifica ed il ripristino dello stato dei luoghi.

Cassazione: il parcheggio a pagamento implica custodia.


Dopo aver lasciato l'auto in un parcheggio a pagamento, leggi il cartello: "La direzione non risponde degli oggetti lasciati incustoditi nell'auto né dei danni che la stessa possa subire". Una scritta che fa paura.

Ora la Cassazione ha stabilito, con la sentenza 5837/2007, che in caso di danni o furti di mezzi custoditi in un parcheggio privato, anche se il gestore ha esposto cartelli di esclusione di ogni responsabilità da parte sua, il proprietario dell'auto va rimborsato.

La Suprema Corte ha confermato la sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Bari, che aveva condannato il pproprietario di un garage a risarcire con 7.000 euro il padrone di un'auto rubata in sosta.

"L'offerta di prestazione del parcheggio - per i giudici - cui segue l'accettazione attraverso l'immissione del veicolo nell'area, ingenera l'affidamento che in essa sia compresa la custodia, restando irrilevanti eventuali condizioni generali di contratto predisposte dall'impresa che gestisce il parcheggio che escludano un obbligo di custodia poiché - per il modo rapidissimo in cui il contratto si conclude - è legittimo ritenere che tale conoscenza sfugga all'utente".

E quei cartelli minacciosi "se la rubano, cavoli vostri"? Non valgono. Trattasi "di clausole onerose assolutamente nulle".

lunedì, aprile 23, 2007

Il presente.



Forse solo in paradiso l'umanità vivrà finalmente per il presente: finora, infatti, è sempre vissuta d'avvenire.

Una parabola ebraica racconta che un giorno Dio mandò l'angelo Gabriele sulla terra a offrire almeno a un uomo il dono puro della felicità.

L'angelo, però, ritornò stringendosi ancora tra le mani quel regalo e a Dio che chiedeva spiegazioni replicò: «Ho trovato che tutti gli uomini non avevano tempo di ascoltarmi perché avevano tutti un piede nel passato e uno nel futuro; nessuno badava al presente».

Qualcosa del genere suggerisce anche il grande scrittore Anton Cechov in un appunto dei suoi diari.

Effettivamente se osserviamo il nostro stesso comportamento, è raro il caso in cui ci fermiamo a gustare il presente, anche perché - come già notava s. Agostino - esso subito ci sfugge di mano.

Siamo, dunque, sospesi tra la nostalgia o il rimpianto per il passato e l'attesa di un futuro desiderato come migliore.

Si genera, così, una sorta di alienazione che è fatta di scontentezza, d' insoddisfazione, di delusione permanente.

Cechov giustamente osserva che sarà proprio l'eternità del paradiso, "puntuale" nella sua pienezza, senza un prima o un poi ma perfetta nell'attimo (si ricordi il desiderio dell'istante pieno, bello e infinito che pervade l'anima del Faust di Goethe) a strapparci dalle illusioni e a immergerci nella gioia del presente.

Ma già ora potremmo fermarci per prendere in mano la nostra realtà attuale, che è già sintesi di ciò che siamo stati e che contiene in germe ciò che saremo.

È questa la vita reale, è ciò che siamo.

Gianfranco Ravasi

Beni parrocchiali e legittimazione ad agire in giudizio.



L'ordinamento giuridico italiano non propone una propria definizione del "beneficio ecclesiastico", rinviando alla nozione che ne prospetta l'ordinamento canonico.

Facendo, quindi, riferimento al can. 1409 del Codice di diritto canonico del 1917 - il sistema beneficiale è stato, infatti, abolito a seguito del nuovo Codex del 1983 e della conclusione del processo di revisione dei Patti Lateranensi - "beneficium ecclesiasticum est ens iuridicum a competente ecclesiastica auctoritate in perpetuum contitutum seu erectum, costans officio sacro et iure percipiendi reditus ex dote officio adnexos".

In particolare, ai sensi dell'art. 28 della legge n. 222 del 1985, l'estinzione del beneficio comporta l'acquisizione del suo patrimonio da parte dell'Istituto diocesano per il sostentamento del clero e la conseguente legittimazione esclusiva di quest'ultimo ad agire in giudizio.

Corte d'Appello di Catania. Sentenza 12 marzo 2007: "Beni parrocchiali e legittimazione ad agire in giudizio".

CORTE D'APPELLO DI CATANIA

SEZIONE SPECIALIZZATA AGRARIA

composta da:

1) Dr. PIRRONE Santi - Presidente -

2) Dr. FRANCOLA Tommaso - Consigliere -

3) Dr. LENTANO Francesco - Consigliere Rel. -

4) Dr. VINCIGUERRA Salvatore - Esperto -

5) Dr. LI DESTRI NICOSIA Giovanni - Esperto -

ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo all'udienza del 26/2/2007, la seguente

SENTENZA

nella causa vertente

TRA

- PARROCCHIA xxx, con sede in Pedara (CT), in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in Catania, presso lo studio dell'avv. A.C., che la rappresenta e difende per mandato a margine dell'atto di appello;

APPELLANTE

E

L.G. elettivamente domiciliata in Catania, presso lo studio dell'avv. V.G.L.R., che la rappresenta e difende per mandato a margine della comparsa di costituzione in appello;

APPELLATA

OGGETTO: Risoluzione contratto di mezzadria e rilascio fondo rustico

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 20/10/1997 la PARROCCHIA xxx, esponeva di essere proprietaria del fondo rustico denominato "xxx" sito in Pedara, in catasto al foglio xxx, particelle xxx; di aver concesso in mezzadria il fondo in questione a D.L.; di aver più volte chiesto il rilascio nei confronti di C.F. e G.L., eredi del defunto contraente originario; di aver già esperito il prescritto tentativo di conciliazione, senza risultato. Concludeva chiedendo che il tribunale di Catania, sezione specializzata agraria dichiarasse risolto il contratto alla fine dell'annata agraria 1992 - 1993, ed ordinasse il rilascio del fondo.

Costituitesi, la F. e la L. eccepivano in primo luogo il difetto di legittimazione attiva della Parrocchia; rilevavano poi che il contratto, iniziato nel 1950, si era convertito in affitto, continuando con le eredi del contraente, e che attraverso le proroghe tacite, doveva ritenersi ancora vigente, non essendo intervenuta disdetta prima della fine della annata agraria 2002 - 2003, con conseguente rinnovazione per altri quindici anni a far data dalla scadenza indicata dalla ricorrente.

Il giudice di primo grado, vista la questione preliminare di difetto di legittimazione attiva, invitava le parti alla discussione e, con sentenza resa in data 16/12/1998, accoglieva l'eccezione. Riteneva in particolare che, venuti meno i benefici parrocchiali con la nuova legge sui beni ecclesiastici, successiva alla revisione del concordato, unico legittimato attivo ad agire fosse l'Istituto per il sostentamento del clero, eretto nella provincia di Catania in data anteriore alla proposizione del giudizio.

La Parrocchia proponeva appello con ricorso depositato il 17/5/1999, insistendo nella domanda di primo grado, e precisando che il fondo oggetto di causa non era di proprietà del beneficio parrocchiale, ma della parrocchia stessa.

Si costituiva la appellata G.L., essendo intervenuto, nelle more, il decesso di C.F.

Il giudizio di appello veniva dichiarato interrotto e riassunto nei confronti della sola G.L., quale unica erede della madre (oltre che del padre originario contraente).

In mancanza di istanze istruttorie, le parti discutevano la causa riportandosi agli scritti introduttivi; il Collegio decideva dando lettura del dispositivo all'udienza del 25/2/2007.

Motivi della decisione

La sentenza è errata e va riformata.

Il giudice di primo grado, in accoglimento della eccezione dei convenuti, ha ritenuto che i terreni amministrati dalla Parrocchia xxx facessero parte del beneficio parrocchiale; ed ha applicato la legge 20 maggio 1985, n. 222 ("Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi"). L'art. 28 stabilisce che, con il decreto di erezione di ciascun istituto diocesano per il sostentamento del clero, "sono contestualmente estinti la mensa vescovile, i benefìci capitolari, parrocchiali, vicariali curati o comunque denominati, esistenti nella diocesi, e i loro patrimoni sono trasferiti di diritto all'istituto stesso".

Verificato che, alla data della domanda, presso la diocesi di Catania era già stato istituito l'istituto per il sostentamento del clero, il Tribunale ha ritenuto che ad esso fossero stati trasferiti tutti i rapporti attivi e passivi dei benefici estinti.

Il fulcro della questione è però quello di stabilire se i terreni oggetto di causa facessero parte del patrimonio della Parrocchia, o di quello del beneficio parrocchiale.

Solo nel secondo caso, infatti, l'estinzione dei benefici comporta l'acquisizione del bene al patrimonio dell'Istituto diocesano per il sostentamento del clero, con conseguente legittimazione esclusiva di quest'ultimo ad agire. Questa distinzione, non esaminata nella sentenza di primo grado, e ampiamente sviluppata nell'atto di appello, trova il suo fondamento nella natura stessa dell'istituto del beneficio parrocchiale.

Si tratta di un istituto di diritto canonico (canone 1409 del codice vigente all'epoca dei fatti), la cui origine storica risiede nella esigenza di garantire al clero un reddito stabile, che consentisse il libero e dignitoso esercizio della attività religiosa. Il parroco aveva dunque l'usufrutto dei beni del beneficio; e quest'ultimo aveva una propria personalità giuridica, distinta da quella della Chiesa parrocchiale.

Recentemente, la giurisprudenza si è occupata di questo istituto prevalentemente per questioni attinenti al regime tributario. Si veda il seguente estratto dalla motivazione di Cass. 381/2006:

"Come in altri casi che concernono i rapporti tra Stato e Chiesa, anche qui l'ordinamento giuridico italiano non propone una propria definizione del "beneficio ecclesiastico", rinviando alla nozione che ne prospetta l'ordinamento canonico. Facendo, quindi, riferimento al canone 1409 del codice di diritto canonico del 1917 - il sistema beneficiale è stato, infatti, abolito a seguito del nuovo codex del 1983 e della (quasi contestuale) conclusione del processo di revisione dei Patti Lateranensi (L. n. 121/1985 e L. n. 222/1985) - "beneficium ecclesiasticum est ens iuridicum a competente ecclesiastica auctoritate in perpetuum contitutum seu erectum, costans officio sacro et iure percipiendi reditus ex dote officio adnexos".

I due elementi costitutivi dell'ente, giuridicamente eretto dalla competente autorità, definibile "beneficio ecclesiastico" sono, pertanto, da identificare, da un lato, nell'ufficio sacro (elemento spirituale), e, dall'altro, nel diritto (del titolare dell'ufficio sacro) di percepire i redditi annessi per dote a quell'ufficio (elemento temporale): ci si trova, in buona sostanza, di fronte ad un patrimonio di scopo (...).

In conseguenza di siffatta natura, il "beneficio" è una fondazione, cioè una persona giuridica non collegiale, in particolare una persona giuridica non collegiale ecclesiastica, consistendo lo scopo, cui il patrimonio dell'ente è funzionale, nel sostentamento del titolare di un ufficio ecclesiastico (ad esempio, il parroco, nel qual caso di parla di "beneficio parrocchiale", o il vescovo, nel qual caso si parla di "mensa vescovile", o altri ancora)".

Per stabilire se l'estinzione dei benefici parrocchiali abbia fatto venir meno la legittimazione attiva della Parrocchia, occorre stabilire chi sia il proprietario dei terreni.

L'ente religioso, a supporto della propria domanda, ha prodotto un certificato catastale, da cui risulta che il fondo è intestato alla Chiesa parrocchiale di Pedara; e una nota di trascrizione, risalente all'anno 1987, da cui risulta che il medesimo bene, come altri, era intestato, nei registri immobiliari, alla chiesa parrocchiale di Pedara; e, dopo la legge del 1985 (che fece sorgere il nuovo soggetto giuridico denominato "Parrocchia", in luogo di quello denominato "Chiesa parrocchiale"), è stato intestato alla odierna attrice, cioè alla Parrocchia.

Tali risultanze documentali appaiono sufficienti per dimostrare la proprietà del bene.

La giurisprudenza della Suprema Corte è orientata nel senso che la nota di trascrizione sia insufficiente a provare la proprietà del bene in una azione di rivendica (Cass. 11605/1997), ma possa essere liberamente valutata dal giudice, unitamente agli altri elementi che la confermano, in ogni altro tipo di domanda (Cass. 8695/2002, 10064/2001).

Nel caso di specie, ritiene questa Corte che la predetta documentazione fornisca piena prova della proprietà alla luce della circostanza che mai, nemmeno nel vigore del rapporto, le parti hanno sollevato questioni sulla titolarità del bene; ed anche l'eccezione processuale è stata formulata in termini generici, senza chiarire su quali basi i convenuti ritenessero di attribuire la proprietà del bene al beneficio parrocchiale anziché alla parrocchia.

Inoltre, alla documentazione amministrativa costituita dal certificato catastale e dalla nota di trascrizione, i convenuti contrappongono solo un documento, costituito da un manoscritto redatto nel 1929 dal parroco dell'epoca, e contenente una serie di risposte a quesiti provenienti da un organo religioso superiore. Tra le risposte ve ne è una in cui si afferma che la Parrocchia ha un beneficio; poi vi è la minuziosa elencazione dei beni, che include anche il fondo oggetto di causa. Il documento in questione, risalendo ad epoca assai remota, nulla ci dice circa le successive vicende del terreno (che potrebbe anche essere stato usucapito dalla Parrocchia in danno del beneficio parrocchiale, vista la distinzione giuridica tra i due soggetti). Inoltre non è nemmeno certo che l'estensore dello scritto, nel dichiarare che la Parrocchia avesse un beneficio, abbia inteso usare il termine nel senso proprio che il diritto canonico gli attribuisce, o nella accezione atecnica di bene "appartenente" in senso lato alla Chiesa.

La copiosa giurisprudenza prodotta dall'appellata all'udienza di discussione si riferisce ad altro problema, che è quello relativo alla individuazione del soggetto legittimato ad agire per ciò che concerne i beni originariamente facenti parte del beneficio; problema su cui la Suprema corte ha avuto modo più volte di pronunciare. Però la questione oggetto del presente giudizio è del tutto diversa, e riguarda non l'identificazione del soggetto oggi legittimato ad amministrare i beni del disciolto beneficio, ma lo stabilire chi abbia l'onere della prova relativo alla dimostrazione della proprietà del bene religioso, quando sia in discussione la sua natura di bene proprio della parrocchia, o di bene beneficiale.

Sul punto non si rinvengono precedenti nella giurisprudenza di legittimità; sicché la risposta va trovata negli ordinari principi in materia di onere della prova, relativamente al diritto di proprietà.

La sentenza va dunque riformata, nel senso che non sussiste il difetto di legittimazione attiva della parte attrice, avendo essa fornito prova sufficiente del proprio diritto di proprietà, da cui consegue la legittimazione ad agire.

Occorre a questo punto esaminare nel merito le richieste della Parrocchia.

Sebbene l'originale del contratto di mezzadria non sia stato prodotto, è incontestato che il rapporto di mezzadria abbia avuto luogo e che più volte, nel 1994 e nel 1997, la Parrocchia abbia chiesto la restituzione del bene.

A tale richiesta, gli eredi del mezzadro contrappongono la pretesa conversione del contratto in affitto di fondo rustico, ai sensi della L. 203/1982.

Tale legge, come è noto, ha disciplinato la conversione in affitto dei preesistenti rapporti di mezzadria, colonia parziaria, compartecipazione agraria e soccida; ma la conversione non avviene automaticamente, necessitando invece una serie di condizioni.

In particolare, l'art. 25 della legge prevedeva in primo luogo che la conversione avvenisse su richiesta di una delle parti; richiesta di cui, nel caso di specie, non vi è traccia. La disciplina del contratto non convertito si rinviene nell'art. 34, che ne regolamenta la durata massima; ma nel caso di specie risulta applicabile anche la norma finale dell'art. 49 ultimo comma, secondo cui, in caso di morte del mezzadro, il contratto si scioglie alla fine dell'annata agraria in corso, salvo che tra gli eredi vi sia persona che abbia esercitato e continui ad esercitare attività agricola in qualità di coltivatore diretto o di imprenditore a titoli principale.

Ne consegue che il contratto di mezzadria non si è mai convertito in affitto; e che, in mancanza di effettiva contestazione circa la sua durata ed il suo regime, esso deve ritenersi risolto alla data indicata dal ricorrente (annata agraria 2002 - 2003).

Infine, del tutto nuovo rispetto al giudizio di primo grado, e comunque indimostrato, è il motivo dedotto dalla appellata, secondo cui il contratto originario sarebbe nullo per mancata autorizzazione da parte della autorità religiosa sovraordinata alla Parrocchia.

La domanda dell'appellante va dunque accolta; ne consegue l'obbligo, per l'unica erede G.L., di rilasciare il fondo alla fine della annata agraria in corso, ai sensi dell'art. 47 L. 203/1982, e cioè alla data del 10/11/2007.

Sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite, tenendo conto della complessità della causa, coinvolgente anche questioni di diritto ecclesiastico, e della circostanza che la stessa parte attrice ha sviluppato solo nell'atto di appello le proprie argomentazioni relative alla distinzione tra beni parrocchiali e beni del beneficio parrocchiale, mentre in primo grado non aveva in alcun modo contrastato l'eccezione preliminare dei convenuti.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando, accoglie l'appello e, per l'effetto, dichiara cessato alla fine della annata agraria 1992 - 1993, il rapporto di mezzadria intercorso tra CHIESA PARROCCHIALE xxx e L.D., e condanna L.G., quale erede dell'originario contraente, nonché di F.C., al rilascio del fondo oggetto di causa, per la fine dell'annata agraria in corso.

Compensa tra le parti le spese processuali.

Così deciso in Catania il 26 febbraio 2007.

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2007.

sabato, aprile 21, 2007

LA VERITA' E' LA FORZA DELLA GIUSTIZIA.



La verità non diventa forza della pace se non per il tramite della giustizia. La Sacra Scrittura, parlando dei tempi messianici, da una parte asserisce che la giustizia è fonte e compagna della pace: «nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbandonerà la pace», dall’altra sottolinea ripetutamente il vincolo che associa la verità alla giustizia: «La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo», ed ancora: «Giudicherà il mondo con giustizia, e con verità tutte le genti».

Ispirandosi a questi e ad altri testi dei Libri Sacri, teologi e canonisti, sia medievali che moderni, giungono ad affermare che la giustizia ha un suo rapporto di dipendenza nei confronti della verità «veritas - asserisce un famoso assioma canonistico - est basis, fundamentum seu mater iustitiae»; e parimente si sono espressi i teologi, con a capo S. Tommaso, il cui pensiero sintetizzò Pio XII affermando con vigore che «la verità è la legge della giustizia», e poi commentando: «Il mondo ha bisogno della verità che è giustizia, e di quella giustizia che è verità».

In tutti i processi la verità deve essere sempre, dall’inizio fino alla sentenza, fondamento, madre e legge della giustizia: il Giudice è, quindi, legato dalla verità, che cerca di indagare con impegno, umiltà e carità.

Per questo tutti gli atti del giudizio, dal libello alle scritture di difesa, possono e debbono essere fonte di verità; ma in modo speciale debbono esserlo gli «atti della causa», e tra questi, gli «atti istruttori», poiché l’istruttoria ha come fine specifico quello di raccogliere le prove sulla verità del fatto asserito, affinché il Giudice possa, su questo fondamento, pronunziare una sentenza giusta.

A questo scopo e dietro citazione del Giudice compariranno, per essere interrogati, le parti, i testi, ed eventualmente i periti.

Il giuramento di dire la verità, che viene richiesto a tutte queste persone, sta in perfetta coerenza con la finalità dell’istruttoria: non si tratta di creare un evento che non è mai esistito, ma di mettere in evidenza e far valere un fatto verificatosi nel passato e perdurante forse ancora nel presente.

Certamente ognuna di queste persone dira la «sua verità», che sarà normalmente la verità oggettiva o una parte di essa, spesso considerata da diversi punti di vista, colorata con le tinte del proprio temperamento, forse con qualche distorsione oppure mescolata con l’errore; ma in ogni caso tutte dovranno agire lentamente, senza tradire né la verità che credono sia oggettiva, né la propria coscienza.

Alessandro II osservava nel sec. XII: «Saepe contingit quod testes, corrupti praetio, facile iuducantur ad falsum testimonium proferendum». Purtroppo nemmeno oggi i testi sono immuni dalla possibilità di prevaricare.

Se questo però avvenisse, gli atti istruttori non sarebbero certamente sorgenti limpide di verità, che potrebbero portare i giudici, nonostante la loro integrità morale e il loro leale sforzo per scoprire la verità, a errare nel pronunziare la sentenza.

Finita l’istruttoria, inizia per i singoli giudici, che dovranno definire la causa, la fase più impegnativa e delicata del processo. Ognuno deve arrivare, se possibile, alla certezza morale circa la verità o esistenza del fatto, poiché questa certezza è requisito indispensabile affinché il Giudice possa pronunziare la sentenza: prima, per così dire, in cuor suo, poi dando il suo suffragio nell’adunanza del collegio giudicante.

Il Giudice deve ricavare tale certezza «ex actis et probatis». Anzitutto «ex actis» poiché si deve presumere che gli atti siano fonte di verità. Perciò il Giudice, seguendo la norma di Innocenzo III, «debet universa rimari», cioè deve scrutare accuratamente gli atti, senza che niente gli sfugga.

Poi «ex probatis», perché il gindice non può limitarsi a dar credito alle sole affermazioni; anzi deve aver presente che, durante l’istruttoria, la verità oggettiva possa essere stata offuscata da ombre indotte per cause diverse, come la dimenticanza di alcuni fatti, la loro soggettiva interpretazione, la trascuratezza e talvolta il dolo e la frode.

È necessario che il giudice agisca con senso critico. Compito arduo, perché gli errori possono essere molti, mentre invece la verità è una sola. Occorre dunque cercare negli atti le prove dei fatti asseriti, procedere poi alla critica di ognuna di tali prove e confrontarla con le altre in modo che venga attuato seriamente il grave consiglio di S. Gregorio Magno: «ne temere indiscussa iudicentur».

Ad aiutare quest’opera delicata ed importante dei giudici sono ordinate le “defensiones" degli Avvocati: anche costoro nello svolgere il lore compito, in favore delle parti, devono servire alla verità, perché trionfi la giustizia.

Bisogna però aver presente che scopo di questa ricerca non è una qualsiasi conoscenza della verità del fatto, ma il raggiungimento della «certezza morale», cioè, di quella conoscenza sicura che «si appoggia sulla costanza delle leggi e degli usi che governano la vita umana».

Questa certezza morale garantisce al giudice di aver trovato la verità del fatto da giudicare, cioè la verità che è fondamento, madre e legge della giustizia, e gli dà quindi la sicurezza di essere - da questo lato - in grado di pronunziare una sentenza giusta. Ed è proprio questa la ragione per cui la legge richiede tale certezza dal giudice, per consentirgli di pronunziare la sentenza.

Facendo tesoro della dottrina e della giurisprudenza sviluppatesi soprattutto in tempi più recenti, Pio XII dichiarò in modo autentico il concetto canonico di certezza morale nell’allocuzione rivolta al vostro tribunale il 1° ottobre 1942. Ecco le parole che fanno al caso nostro: «Tra la certezza assoluta e la quasi-certezza o probabilità sta, come tra due estremi, quella certezza morale della quale d’ordinario si tratta nelle questioni sottoposte al vostro foro... Essa, nel lato positivo, è caratterizzata da ciò che esclude ogni fondato o ragionevole dubbio e, così considerata, si distingue essenzialmente dalla menzionata quasi-certezza; dal lato poi negativo, lascia sussistere la possibilità assoluta del contrario, e con ciò si differenzia dall’assoluta certezza. La certezza, di cui ora parliamo, è necessaria e sufficiente per pronunziare una sentenza.

L’amministrazione della giustizia affidata al Giudice è un servizio alla verità e nello stesso tempo è esercizio di una mansione appartenente all’ordine pubblico. Poiché al Giudice è affidata la legge «per la sua razionale e normale applicazione».

Occorre, dunque, che la parte attrice possa invocare a suo favore una legge, la quale riconosca nel fatto allegato una motivazione giuridica sufficiente, attraverso questa legge si fara il passaggio dalla verità del fatto alla giustizia o riconoscimento di ciò che è dovuto.

Gravi e molteplici sono, perciò, i doveri del Giudice verso la legge. Accenno soltanto al primo e più importante che d’altronde porta con sé tutti gli altri: la fedeltà!

Fedeltà alla legge, a quella divina naturale e positiva, a quella sostanziale e procedurale.

L’oggettività tipica della giustizia e del processo, che nella «quaestio facti» si concretizza nell’aderenza alla verità, nella «quaestio iuris» si traduce nella fedeltà; concetti che, come è manifesto, hanno una grande affinità fra loro.

La fedeltà del giudice alla legge lo deve portare ad immedesimarsi con essa, cosicché si possa dire con ragione, come scriveva M.T. Cicerone, che il giudice è la stessa legge che parla: «magistratum legem esse loquentem».

Sarà poi questa stessa fedeltà a spingere il giudice ad acquistare quell’insieme di qualità di cui ha bisogno per eseguire gli altri suoi doveri nei confronti della legge: sapienza per comprenderla, scienza per illustarla, zelo per difenderla, prudenza per interpretarla, nel suo spirito, oltre il «nudus cortex verborum», ponderatezza ed equità per applicarla.

BRANI TRATTI DAL DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II AGLI OFFICIALI E AVVOCATI DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA (4 febbraio 1980).


venerdì, aprile 20, 2007

L'Avvocatura vara proposta unitaria di autoregolamentazione delle astensioni.




L’Organismo Unitario dell’Avvocatura, l’Unione Camere Penali, l’Associazione Nazionale Forense, l’Associazione Italiana Giovani Avvocati, l’Unione delle Camere Civili, hanno inviato, alla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, una proposta unitaria di Codice di autoregolamentazione per le astensioni degli avvocati dalla attività giudiziaria varata il 4 aprile ma resa nota solo due giorni fa. Gli avvocati attendono ora dalla Commissione un giudizio di conformità ai principi dell’ordinamento in materia di astensione dall’attività giudiziaria.

L’Avvocatura contesta infatti che possa essere dettata da altri soggetti, e segnatamente dalla Commissione di Garanzia dell’attuazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali - che due mesi fa aveva sottoposto alle associazioni degli avvocati la bozza di un nuovo regolamento suscitando reazioni critiche - una regolamentazione per la astensione nel settore forense impositiva e uniforme a quella dettata per i lavoratori della Giustizia legati da rapporto di lavoro subordinato, e per questa ragione - spiegano le associazioni firmatarie - ha inteso dar vita ad un nuovo codice di autoregolamentazione, come già fatto in passato.

"Nonostante fino ad ora siano stati disattesi tutti gli impegni presi - sottolineano gli avvocati - è giusto ricordare che un Odg, unanime, fu votato al senato già nell’aprile del 2000 (primo firmatario Guido Calvi)". Nelle sedi politiche - promettono UCPI, ANF, AIGA, UNCC - "continueremo ad impegnarci affinché sia arrivi all’abrogazione della legge n. 83/00 e all’approvazione di una disciplina di legge della astensione forense rispettosa dei principi inviolabili del diritto di difesa e della tutela dei diritti in generale, e altresì dei valori di pari rango costituzionale. Nelle sedi giurisdizionali si continuerà a contrastare ogni atto di imposizione normativa o amministrativa dall’Avvocatura ritenuto illegittimo".

Nella premessa della proposta di regolamento si ricorda che la sentenza 171/96 della Corte Cost. ha riconosciuto la esistenza di “un’area connessa alla libertà di associazione, che è oggetto di salvaguardia costituzionale ed è significativamente più estesa rispetto alla sciopero” e che tale salvaguardia “vale altresì per l’astensione dal lavoro di quei professionisti che svolgono – come gli avvocati – la propria attività in condizioni di indipendenza; dal che derivano la peculiarità della loro posizione e che la stessa Corte Costituzionale ha ritenuto di non poter assimilare lò'astensione degli avvocati ad altre tipologie di sciopero ed ha indicato con precisione i punti critici della disciplina nella necessità di un congruo preavviso, nell’obiettivo della ragionevole durata dei processi e nell’individuazione delle prestazioni minime essenziali da garantire.

Inoltre gli avvocati ricordano che "le astensioni proclamate dall’Avvocatura – invero con parsimonia e sempre a tutela e salvaguardia dei diritti e non già per ragioni corporative – si sono sempre svolte ordinatamente e nel rispetto di questi principi". Si spiega poi che "momenti centrali di tale autoregolamentazione sono, per un verso, la rivendicazione del proprio diritto-dovere di tutelare i cittadini nel processo e la figura dell’avvocato, nella più ampia accezione della sua natura e della sua funzione, e, per altro verso, la garanzia, proprio nell’interesse dei cittadini e dell’avvocato, dei concorrenti valori di rango costituzionale".

di Mauro W. Giannini

Speciale giustizia

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www.osservatoriosullalegalita.org

Lineamenti di un magistrato VIP.



“Capelli: li taglia e di rado, a Napoli. Dal barbiere di Potenza, Paolo Mattia si fa fare la barba ogni tanto”.

“Occhiali: da sole i Ray Ban a goccia, rettangolari di tartaruga quelli da vista”.

“Giacca: un po’ lisa e sportiva. Usa poche cravatte e solo Marinella”.

“Pantaloni: preferiti quelli di fustagno color mastice. Da vela usa i Murphis & Nye. Come jeans i Levis”.

“Camicie: se le fa fare su misura a Napoli da un’artigiana di vicolo Martucci”.

“Orologi: solo Omega. Adesso ha al polso lo Speedmaster”.

“Motori: Moto Yamaha XT e BMW 1100. Auto, una vecchia Volvo rossa”.

Ecco la scheda di Henry John Woodcock.

Il tutto su “Chi” rivista beneficiaria sia delle foto di Corona e dei suoi colleghi paparazzi, sia della gran voglia di chi vuol essere spettegolato, sia di chi voleva veramente evitare di farsi spettegolare, sia della crociata del Dott. Woodcock (di cui alla scheda).

Insomma Woodcock non sarà proprio strettamente osservante della competenza per territorio per le sue inchieste, ma sembra proprio sappia comparire sui giornali giusti, competenti, si direbbe, per materia.

Mauro Mellini

martedì, aprile 17, 2007

PRODI E' IL LEADER PIU' POVERO!



Alle elezioni del 2006 ha vinto Prodi, ma nella dichiarazione dei redditi non c'è stata storia: Berlusconi, in netto recupero rispetto all'anno precedente, ha presentato al fisco un imponibile pari a 313 volte quello del leader dell'Unione.
Dalle dichiarazioni dei redditi 2005 depositate dai deputati risulta infatti che l'ex presidente del consiglio ha dichiarato oltre 28 milioni di euro (28,033 a fronte dei 5,33 dell'anno precedente) contro i nemmeno 90mila (89.514) del suo successore a Palazzo Chigi.
Anche l'attuale portavoce del governo, Silvio Sircana, allora in forza alle Ferrovie, con 254mila euro lo superava nettamente.

lunedì, aprile 16, 2007

Buon compleanno!

Cassazione: deve essere motivata adeguatamente la liquidazione delle spese.




La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (Sent. n. 8295/2007) ha stabilito che "in tema di liquidazione di spese processuali, il giudice che riduca l'ammontare complessivo di diritti ed onorari indicati nella nota prodotta dalle parti, ha l'obbligo d'indicare il criterio di liquidazione adottato, in modo da consentire il controllo di legittimità sulle variazioni effettuate, attesa l'inderogabilità dei compensi per le prestazioni di avvocato e procuratore sancita dall'articolo 24 legge 794/42".

I Giudici di Piazza Cavour hanno infatti precisato che "in presenza di una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, il giudice, infatti, non può limitarsi ad una globale determinazione, in misure inferiori a quelle esposte, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, ma ha l'onere di dare adeguata motivazione dell'eliminazione o della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e alle tariffe, in relazione all'inderogabilità dei relativi minimi, a norma del richiamato articolo 24".

domenica, aprile 15, 2007

Riforma Ordinamento Giudiziario entro luglio.



L'Anm avverte: sara' paralisi per la giustizia, se il ddl Mastella sull'ordinamento giudiziario non sara' approvato entro il 31 luglio.

La data e' quella in cui scade il 'congelamento' della riforma Castelli .

L'Anm ha ribadito il suo 'allarme preoccupato' nel corso di un lungo incontro con il ministro della Giustizia.

Se entro quella data non sara' successo nulla, i magistrati sono pronti ad attuare 'uno o piu' giorni di sciopero'.

venerdì, aprile 13, 2007

Non vogliamo essere illusi.



Il fatto che il Senato abbia iniziato a esaminare, seppure in maniera informale, i testi dei disegni di legge di riforma della professione forense riconoscendone la specificità, è certamente positivo.

Ma non illudiamoci: questo non vuol dire che i nostri problemi sono risolti. In un momento in cui la volontà della maggioranza, in materia, è abbastanza ondivaga, e non si riesce a capire se effettivamente si voglia proseguire sul percorso della riforma unitaria delle professioni o se esista una reale consistenza la prospettiva di una specificità della professione di avvocato questo fatto potrebbe essere pericoloso per l’unità delle forze professionali.

Potrebbe essere solo un tentativo di creare delle spaccature in un fronte che, ad oggi appare abbastanza unito. Nell’arco dello scorso anno e dei primi mesi del 2007 la compattezza interprofessionale ha rappresentato una grande e inaspettata novità nel panorama sociale del nostro Paese.

Le cifre dell’adesione alla manifestazioni promosse per protestare contro il Governo parlano da sole: i 50 mila in piazza il 12 ottobre non possono essere dimenticati.

Mi piacerebbe quindi di capire se effettivamente c’è una volontà politica di andare avanti e riconoscere la diversità specifica della nostra professione o se si tratta semplicemente di un diversivo.

Se fosse una strada seria la nostra specificità potrebbe avvenire anche nel disegno di legge generale di riforma. Altrimenti si tratterebbe dell’ennesimo tentativo di illudere gli avvocati italiani.

Michelina Grillo (Presidente Oua)

...Esiste la Massoneria a Salerno?



INCONCILIABILITÀ TRA FEDE CRISTIANA E MASSONERIA

Articolo apparso su L'Osservatore Romano del 23 febbraio 1985


Il 26 novembre 1983 la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicava una dichiarazione sulle associazioni massoniche (cfr AAS LXXVI [1984] 300).

A poco più di un anno di distanza dalla sua pubblicazione può essere utile illustrare brevemente il significato di questo documento.

Da quando la Chiesa ha iniziato a pronunciarsi nei riguardi della massoneria il suo giudizio negativo è stato ispirato da molteplici ragioni, pratiche e dottrinali. Essa non ha giudicato la massoneria responsabile soltanto di attività sovversiva nei suoi confronti, ma fin dai primi documenti pontifici in materia e in particolare nella Enciclica "Humanum Genus" di Leone XIII (20 aprile 1884), il Magistero della Chiesa ha denunciato nella Massoneria idee filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina cattolica. Per Leone XIII esse si riconducevano essenzialmente a un naturalismo razionalista, ispiratore dei suoi piani e delle sue attività contro la Chiesa. Nella sua Lettera al Popolo Italiano "Custodi" (8 dicembre 1892) egli scriveva: "Ricordiamoci che il cristianesimo e la massoneria sono essenzialmente inconciliabili, così che iscriversi all’una significa separarsi dall’altra".

Non si poteva pertanto tralasciare di prendere in considerazione le posizioni della Massoneria dal punto di vista dottrinale, quando negli anni 1970-1980 la S. Congregazione era in corrispondenza con alcune Conferenze Episcopali particolarmente interessate a questo problema, a motivo del dialogo intrapreso da parte di personalità cattoliche con rappresentanti di alcune logge che si dichiaravano non ostili o perfino favorevoli alla Chiesa.

Ora lo studio più approfondito ha condotto la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede a confermarsi nella convinzione dell’inconciliabilità di fondo fra i principi della massoneria e quelli della fede cristiana.

Prescindendo pertanto dalla considerazione dell’atteggiamento pratico delle diverse logge, di ostilità o meno nei confronti della Chiesa, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, con la sua dichiarazione del 26.11.83, ha inteso collocarsi al livello più profondo e d’altra parte essenziale del problema: sul piano cioè dell’inconciliabilità dei principi, il che significa sul piano della fede e delle sue esigenze morali.

A partire da questo punto di vista dottrinale, in continuità del resto con la posizione tradizionale della Chiesa, come testimoniano i documenti sopra citati di Leone XIII, derivano poi le necessarie conseguenze pratiche, che valgono per tutti quei fedeli che fossero eventualmente iscritti alla massoneria.

A proposito dell’affermazione sull’inconciliabilità dei principi tuttavia si va ora da qualche parte obiettando che essenziale della massoneria sarebbe proprio il fatto di non imporre alcun "principio", nel senso di una posizione filosofica o religiosa che sia vincolante per tutti i suoi aderenti, ma piuttosto di raccogliere insieme, al di là dei confini delle diverse religioni e visioni del mondo, uomini di buona volontà sulla base di valori umanistici comprensibili e accettabili da tutti.

La massoneria costituirebbe un elemento di coesione per tutti coloro che credono nell’Architetto dell’Universo e si sentono impegnati nei confronti di quegli orientamenti morali fondamentali che sono definiti ad esempio nel Decalogo; essa non allontanerebbe nessuno dalla sua religione, ma al contrario costituirebbe un incentivo ad aderirvi maggiormente.

In questa sede non possono essere discussi i molteplici problemi storici e filosofici che si nascondono in tali affermazioni. Che anche la Chiesa cattolica spinga nel senso di una collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, non è certamente necessario sottolinearlo dopo il Concilio Vaticano II. L’associarsi nella massoneria va tuttavia decisamente oltre questa legittima collaborazione e ha un significato ben più rilevante e determinante di questo.

Innanzi tutto si deve ricordare che la comunità dei "liberi muratori" e le sue obbligazioni morali si presentano come un sistema progressivo di simboli dal carattere estremamente impegnativo. La rigida disciplina dell’arcano che vi domina rafforza ulteriormente il peso dell’interazione di segni e di idee. Questo clima di segretezza comporta, oltre tutto, per gli iscritti il rischio di divenire strumento di strategie ad essi ignote.

Anche se si afferma che il relativismo non viene assunto come dogma, tuttavia si propone di fatto una concezione simbolica relativistica, e pertanto il valore relativizzante di una tale comunità morale-rituale lungi dal poter essere eliminato, risulta al contrario determinante.

In tale contesto, le diverse comunità religiose, cui appartengono i singoli membri delle Logge, non possono essere considerate se non come semplici istituzionalizzazioni di una verità più ampia e inafferrabile. Il valore di queste istituzionalizzazioni appare, quindi, inevitabilmente relativo, rispetto a questa verità più ampia, la quale si manifesta invece piuttosto nella comunità della buona volontà, cioè nella fraternità massonica.

Per un cristiano cattolico, tuttavia, non è possibile vivere la sua relazione con Dio in una duplice modalità, scindendola cioè in una forma umanitaria - sovraconfessionale e in una forma interna - cristiana. Egli non può coltivare relazioni di due specie con Dio, né esprimere il suo rapporto con il Creatore attraverso forme simboliche di due specie. Ciò sarebbe qualcosa di completamente diverso da quella collaborazione, che per lui è ovvia, con tutti coloro che sono impegnati nel compimento del bene, anche se a partire da principi diversi. D’altronde un cristiano cattolico non può nello stesso tempo partecipare alla piena comunione della fraternità cristiana e, d’altra parte, guardare al suo fratello cristiano, a partire dalla prospettiva massonica, come a un "profano".

Anche quando, come già si è detto, non vi fosse un’obbligazione esplicita di professare il relativismo come dottrina, tuttavia la forza relativizzante di una tale fraternità, per la sua stessa logica intrinseca ha in sé la capacità di trasformare la struttura dell’atto di fede in modo così radicale da non essere accettabile da parte di un cristiano, "al quale cara è la sua fede" (Leone XIII).

Questo stravolgimento nella struttura fondamentale dell’atto di fede si compie, inoltre, per lo più, in modo morbido e senza essere avvertito: la salda adesione alla verità di Dio, rivelata nella Chiesa, diviene semplice appartenenza a un’istituzione, considerata come una forma espressiva particolare accanto ad altre forme espressive, più o meno altrettanto possibili e valide, dell’orientarsi dell’uomo all’eterno.

La tentazione ad andare in questa direzione è oggi tanto più forte, in quanto essa corrisponde pienamente a certe convinzioni prevalenti nella mentalità contemporanea. L’opinione che la verità non possa essere conosciuta è caratteristica tipica della nostra epoca e, nello stesso tempo, elemento essenziale della sua crisi generale.

Proprio considerando tutti questi elementi la Dichiarazione della S. Congregazione afferma che la Iscrizione alle associazioni massoniche "rimane proibita dalla Chiesa" e i fedeli che vi si iscrivono "sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione".

Con questa ultima espressione, la S. Congregazione indica ai fedeli che tale iscrizione costituisce obiettivamente un peccato grave e, precisando che gli aderenti a una associazione massonica non possono accedere alla Santa Comunione, essa vuole illuminare la coscienza dei fedeli su di una grave conseguenza che essi devono trarre dalla loro adesione a una loggia massonica.

La S. Congregazione dichiara infine che "non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche, con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito". A questo proposito il testo fa anche riferimento alla Dichiarazione del 17 febbraio 1981, la quale già riservava alla Sede Apostolica ogni pronunciamento sulla natura di queste associazioni che avesse implicato deroghe alla legge canonica allora in vigore (can. 2335).

Allo stesso modo il nuovo documento, emesso dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede nel novembre 1983, esprime identiche intenzioni di riserva relativamente a pronunciamenti che divergessero dal giudizio qui formulato sulla inconciliabilità dei principi della massoneria con la fede cattolica, sulla gravità dell’atto di iscriversi a una loggia e sulla conseguenza che ne deriva per l’accesso alla Santa Comunione. Questa disposizione indica che, malgrado la diversità che può sussistere fra le obbedienze massoniche, in particolare nel loro atteggiamento dichiarato verso la Chiesa, la Sede Apostolica vi riscontra alcuni principi comuni, che richiedono una medesima valutazione da parte di tutte le autorità ecclesiastiche.

Nel fare questa Dichiarazione, la Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede non ha inteso disconoscere gli sforzi compiuti da coloro che, con la debita autorizzazione di questo Dicastero, hanno cercato di stabilire un dialogo con rappresentanti della Massoneria. Ma, dal momento che vi era la possibilità che si diffondesse fra i fedeli l’errata opinione secondo cui ormai la adesione a una loggia massonica era lecita, essa ha ritenuto suo dovere far loro conoscere il pensiero autentico della Chiesa in proposito e metterli in guardia nei confronti di un’appartenenza incompatibile con la fede cattolica.

Solo Gesù Cristo è, infatti, il Maestro della Verità e solo in Lui i cristiani possono trovare la luce e la forza per vivere secondo il disegno di Dio, lavorando al vero bene dei loro fratelli.

giovedì, aprile 12, 2007

Sì a Carbone Presidente della Cassazione.



Vincenzo Carbone poteva essere nominato Primo Presidente della Corte di Cassazione.
Lo ha stabilito il Tar del Lazio, accogliendo il ricorso presentato dall’alto magistrato contro il Consiglio Superiore della Magistratura che aveva deciso di non procedere alla sua nomina a Primo presidente della Suprema Corte a causa dell’attività di insegnamento prestata all’università senza la prescritta autorizzazione dell’organo di autogoverno.
Secondo i giudici amministrativi il ricorso è fondato in quanto il ricorrente ha ritenuto legittimamente che non fosse necessario avvertire il CSM in quanto quest’ultimo – che lo aveva in precedenza nominato presidente aggiunto della Suprema Corte - era a conoscenza dell’incarico extragiudiziario esercitato e non lo aveva considerato un ostacolo alla nomina.
Il tribunale amministrativo ha inoltre rilevato che, non avendo il CSM mai chiesto chiarimenti in merito, la mancanza dell’autorizzazione non può costituire un valido motivo per non conferire l’incarico di Primo presidente, dando in sostanza il via libera alla nomina di Carbone al vertice della Suprema Corte.
Ma è quasi certo il ricorso al Consiglio di Stato e la vicenda rischia di allungarsi per un tempo imprevedibile.
(Tar Lazio sent. n. 3036/2007)

PARADOSSI.



"Per vincere una causa gli avvocati sarebbero capaci di qualsiasi cosa. Persino di dire la verità!"
Murray

mercoledì, aprile 11, 2007

Parte la "formazione permanente" per gli avvocati.

I lavori del consiglio.




ORDINE del GIORNO
Tornata del 12 aprile 2007 ore 16,00


1) Lettura ed approvazione verbale precedente

2) Fissazione date celebrazione procedimenti disciplinari

3) Ricorsi a carico degli iscritti-determinazioni-

I TRIBUNALI ELETTORALI.



Nessun semplice indagato, in Italia, può essere privato del diritto di candidarsi a un'elezione, fine.

Non almeno con la giustizia che abbiamo, laddove qualsiasi persona può ritrovarsi inquisita salvo magari uscire scagionata dopo due lustri, spennata dagli avvocati e sbertucciata da magistrati che frattanto inseguono nuove glorie.

La proposta della Commissione antimafia affinché i partiti non candidino imputati, perciò, è segnale di cattiva civiltà giuridica e soprattutto di cattiva memoria.

In Italia è davvero il caso che i diritti civili vengano tolti solo ai condannati in giudicato, e del perché ci abbiamo riempito i libri.

Ai partiti resti la responsabilità di scegliere i candidati e agli elettori quella di votarli: dopodiché, se voteranno dei mafiosi, si prenderanno quelli.

Non è cinismo, è il prezzo della democrazia, a meno di sospenderla come proposto anni fa dai magistrati Scarpinato e Ingroia, per la precisione «sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale».

Anche Elio Veltri propose qualcosa del genere: a un Parlamento pieno di corrotti andava preferito, scrisse, «il lavoro dei magistrati» nonché «un gruppo interdisciplinare esterno al Parlamento».

Brividi. E non solo risate.

Filippo Facci