
Una parabola ebraica racconta che un giorno Dio mandò l'angelo Gabriele sulla terra a offrire almeno a un uomo il dono puro della felicità.
L'angelo, però, ritornò stringendosi ancora tra le mani quel regalo e a Dio che chiedeva spiegazioni replicò: «Ho trovato che tutti gli uomini non avevano tempo di ascoltarmi perché avevano tutti un piede nel passato e uno nel futuro; nessuno badava al presente».
Qualcosa del genere suggerisce anche il grande scrittore Anton Cechov in un appunto dei suoi diari.
Effettivamente se osserviamo il nostro stesso comportamento, è raro il caso in cui ci fermiamo a gustare il presente, anche perché - come già notava s. Agostino - esso subito ci sfugge di mano.
Siamo, dunque, sospesi tra la nostalgia o il rimpianto per il passato e l'attesa di un futuro desiderato come migliore.
Si genera, così, una sorta di alienazione che è fatta di scontentezza, d' insoddisfazione, di delusione permanente.
Cechov giustamente osserva che sarà proprio l'eternità del paradiso, "puntuale" nella sua pienezza, senza un prima o un poi ma perfetta nell'attimo (si ricordi il desiderio dell'istante pieno, bello e infinito che pervade l'anima del Faust di Goethe) a strapparci dalle illusioni e a immergerci nella gioia del presente.
Ma già ora potremmo fermarci per prendere in mano la nostra realtà attuale, che è già sintesi di ciò che siamo stati e che contiene in germe ciò che saremo.
È questa la vita reale, è ciò che siamo.
Gianfranco Ravasi
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