sabato, aprile 21, 2007

LA VERITA' E' LA FORZA DELLA GIUSTIZIA.



La verità non diventa forza della pace se non per il tramite della giustizia. La Sacra Scrittura, parlando dei tempi messianici, da una parte asserisce che la giustizia è fonte e compagna della pace: «nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbandonerà la pace», dall’altra sottolinea ripetutamente il vincolo che associa la verità alla giustizia: «La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo», ed ancora: «Giudicherà il mondo con giustizia, e con verità tutte le genti».

Ispirandosi a questi e ad altri testi dei Libri Sacri, teologi e canonisti, sia medievali che moderni, giungono ad affermare che la giustizia ha un suo rapporto di dipendenza nei confronti della verità «veritas - asserisce un famoso assioma canonistico - est basis, fundamentum seu mater iustitiae»; e parimente si sono espressi i teologi, con a capo S. Tommaso, il cui pensiero sintetizzò Pio XII affermando con vigore che «la verità è la legge della giustizia», e poi commentando: «Il mondo ha bisogno della verità che è giustizia, e di quella giustizia che è verità».

In tutti i processi la verità deve essere sempre, dall’inizio fino alla sentenza, fondamento, madre e legge della giustizia: il Giudice è, quindi, legato dalla verità, che cerca di indagare con impegno, umiltà e carità.

Per questo tutti gli atti del giudizio, dal libello alle scritture di difesa, possono e debbono essere fonte di verità; ma in modo speciale debbono esserlo gli «atti della causa», e tra questi, gli «atti istruttori», poiché l’istruttoria ha come fine specifico quello di raccogliere le prove sulla verità del fatto asserito, affinché il Giudice possa, su questo fondamento, pronunziare una sentenza giusta.

A questo scopo e dietro citazione del Giudice compariranno, per essere interrogati, le parti, i testi, ed eventualmente i periti.

Il giuramento di dire la verità, che viene richiesto a tutte queste persone, sta in perfetta coerenza con la finalità dell’istruttoria: non si tratta di creare un evento che non è mai esistito, ma di mettere in evidenza e far valere un fatto verificatosi nel passato e perdurante forse ancora nel presente.

Certamente ognuna di queste persone dira la «sua verità», che sarà normalmente la verità oggettiva o una parte di essa, spesso considerata da diversi punti di vista, colorata con le tinte del proprio temperamento, forse con qualche distorsione oppure mescolata con l’errore; ma in ogni caso tutte dovranno agire lentamente, senza tradire né la verità che credono sia oggettiva, né la propria coscienza.

Alessandro II osservava nel sec. XII: «Saepe contingit quod testes, corrupti praetio, facile iuducantur ad falsum testimonium proferendum». Purtroppo nemmeno oggi i testi sono immuni dalla possibilità di prevaricare.

Se questo però avvenisse, gli atti istruttori non sarebbero certamente sorgenti limpide di verità, che potrebbero portare i giudici, nonostante la loro integrità morale e il loro leale sforzo per scoprire la verità, a errare nel pronunziare la sentenza.

Finita l’istruttoria, inizia per i singoli giudici, che dovranno definire la causa, la fase più impegnativa e delicata del processo. Ognuno deve arrivare, se possibile, alla certezza morale circa la verità o esistenza del fatto, poiché questa certezza è requisito indispensabile affinché il Giudice possa pronunziare la sentenza: prima, per così dire, in cuor suo, poi dando il suo suffragio nell’adunanza del collegio giudicante.

Il Giudice deve ricavare tale certezza «ex actis et probatis». Anzitutto «ex actis» poiché si deve presumere che gli atti siano fonte di verità. Perciò il Giudice, seguendo la norma di Innocenzo III, «debet universa rimari», cioè deve scrutare accuratamente gli atti, senza che niente gli sfugga.

Poi «ex probatis», perché il gindice non può limitarsi a dar credito alle sole affermazioni; anzi deve aver presente che, durante l’istruttoria, la verità oggettiva possa essere stata offuscata da ombre indotte per cause diverse, come la dimenticanza di alcuni fatti, la loro soggettiva interpretazione, la trascuratezza e talvolta il dolo e la frode.

È necessario che il giudice agisca con senso critico. Compito arduo, perché gli errori possono essere molti, mentre invece la verità è una sola. Occorre dunque cercare negli atti le prove dei fatti asseriti, procedere poi alla critica di ognuna di tali prove e confrontarla con le altre in modo che venga attuato seriamente il grave consiglio di S. Gregorio Magno: «ne temere indiscussa iudicentur».

Ad aiutare quest’opera delicata ed importante dei giudici sono ordinate le “defensiones" degli Avvocati: anche costoro nello svolgere il lore compito, in favore delle parti, devono servire alla verità, perché trionfi la giustizia.

Bisogna però aver presente che scopo di questa ricerca non è una qualsiasi conoscenza della verità del fatto, ma il raggiungimento della «certezza morale», cioè, di quella conoscenza sicura che «si appoggia sulla costanza delle leggi e degli usi che governano la vita umana».

Questa certezza morale garantisce al giudice di aver trovato la verità del fatto da giudicare, cioè la verità che è fondamento, madre e legge della giustizia, e gli dà quindi la sicurezza di essere - da questo lato - in grado di pronunziare una sentenza giusta. Ed è proprio questa la ragione per cui la legge richiede tale certezza dal giudice, per consentirgli di pronunziare la sentenza.

Facendo tesoro della dottrina e della giurisprudenza sviluppatesi soprattutto in tempi più recenti, Pio XII dichiarò in modo autentico il concetto canonico di certezza morale nell’allocuzione rivolta al vostro tribunale il 1° ottobre 1942. Ecco le parole che fanno al caso nostro: «Tra la certezza assoluta e la quasi-certezza o probabilità sta, come tra due estremi, quella certezza morale della quale d’ordinario si tratta nelle questioni sottoposte al vostro foro... Essa, nel lato positivo, è caratterizzata da ciò che esclude ogni fondato o ragionevole dubbio e, così considerata, si distingue essenzialmente dalla menzionata quasi-certezza; dal lato poi negativo, lascia sussistere la possibilità assoluta del contrario, e con ciò si differenzia dall’assoluta certezza. La certezza, di cui ora parliamo, è necessaria e sufficiente per pronunziare una sentenza.

L’amministrazione della giustizia affidata al Giudice è un servizio alla verità e nello stesso tempo è esercizio di una mansione appartenente all’ordine pubblico. Poiché al Giudice è affidata la legge «per la sua razionale e normale applicazione».

Occorre, dunque, che la parte attrice possa invocare a suo favore una legge, la quale riconosca nel fatto allegato una motivazione giuridica sufficiente, attraverso questa legge si fara il passaggio dalla verità del fatto alla giustizia o riconoscimento di ciò che è dovuto.

Gravi e molteplici sono, perciò, i doveri del Giudice verso la legge. Accenno soltanto al primo e più importante che d’altronde porta con sé tutti gli altri: la fedeltà!

Fedeltà alla legge, a quella divina naturale e positiva, a quella sostanziale e procedurale.

L’oggettività tipica della giustizia e del processo, che nella «quaestio facti» si concretizza nell’aderenza alla verità, nella «quaestio iuris» si traduce nella fedeltà; concetti che, come è manifesto, hanno una grande affinità fra loro.

La fedeltà del giudice alla legge lo deve portare ad immedesimarsi con essa, cosicché si possa dire con ragione, come scriveva M.T. Cicerone, che il giudice è la stessa legge che parla: «magistratum legem esse loquentem».

Sarà poi questa stessa fedeltà a spingere il giudice ad acquistare quell’insieme di qualità di cui ha bisogno per eseguire gli altri suoi doveri nei confronti della legge: sapienza per comprenderla, scienza per illustarla, zelo per difenderla, prudenza per interpretarla, nel suo spirito, oltre il «nudus cortex verborum», ponderatezza ed equità per applicarla.

BRANI TRATTI DAL DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II AGLI OFFICIALI E AVVOCATI DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA (4 febbraio 1980).


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