venerdì, luglio 27, 2007

I confini del giudice.


«C’è un rapporto malato tra giustizia e politica». È il consueto giudizio che si evoca quando organi della prima si interessano di soggetti della seconda, così attribuendo al «giudizio» connotazioni tutte nostrane.

L’ultima volta accade in questi giorni; nei quali si rincorrono opinioni e dichiarazioni che rimandano a valori costituzionali per la tutela della propria sfera di comportamento. Ancora una volta (si veda anche il caso che riguarda il giudice Clementina Forleo) ho l’impressione che connotati «partigiani» delle argomentazioni prevalgano sulla idealità del rapporto fisiologicamente costruito alla fine degli anni ’40 secondo linee di distinguo tra giustizia e politica dettate dalla storia e dal senso altamente politico coltivato nella Costituzione.

Perciò appaiono vaghe e vacue le argomentazioni sostenute in nome di una nuova e astorica ideologizzazione dei termini del problema; e perciò ci si confronta sull’interrogativo «chi-ha-ragione-e-chi-ha-torto» alla ricerca - appunto - della ragione di parte, ignorando il nodo centrale su cui costruire la ragione del Paese.

È vero. In democrazia il valore più alto è l’indipendenza del giudice; anzi, con Salvatore Satta, convengo che la democrazia può mutare a piacimento la sua organizzazione, ma non può rinunciare - pena la sua caduta - alla giurisdizione come funzione terza, imparziale, autonoma.

Il punto è questo. E attira l’attenzione sul significato reale e costituzionalmente valido della formula «il giudice è soggetto soltanto alla legge». Essa, negli anni ’40-’50, evocava aspirazioni illuministiche esaltando le fondamenta dello Stato moderno.

Col tempo, il sempre più incisivo contributo della magistratura all’atteggiamento cultural-giuridico del Paese abbattè il mito della «neutralità» del giudice rispetto al prodotto legislativo, aprendo gli orizzonti speculativi fino a offrirgli il controllo diffuso di legittimità costituzionale della legge, mai (dico: mai) affievolendo il valore della neutralità rispetto alla specifica vicenda. Insomma, si abbattè il mito della «neutralità politica», si rinforzò il bisogno della «neutralità tecnica».

Anzi, se si legge quella «strana» - e apparentemente neutra - disposizione di inizio del Codice di procedura penale del 1988, si scorge il connubio, il nesso indissolubile tra legge e giudice, che qualifica l’indipendenza con un vincolo di sottoposizione forte del secondo alla prima al quale quello non può sottrarsi.

La triade di elementi lì contenuti, identificando giurisdizione e giustizia, richiama il bisogno della corretta applicazione della legge come essenza stessa della funzione: la giurisdizione è, cioè, democraticamente legittimata proprio dal rispetto delle norme codicistiche.

Insomma: indipendenza e legalità convivono indissolubilmente.

E dunque, quando si dice «sono soggetto solo alla legge», si pronunzia un postulato politico monco, se il comportamento non segue - intimamente ed esteriormente - il rispetto della legge.

Ed è la profonda condivisione di questo irrinunciabile assioma della democrazia che guida il richiamo del Csm all’«apparire» come all’«essere» dell’indipendenza; che fa la differenza tra provvedimento legittimo e atto abnorme; che mantiene in vita la sincronia tra poteri dello Stato e le rispettive sfere di competenza.

Eguale condivisione è alla radice degli interventi dei migliori giuristi del Paese (si vedano ad esempio Franco Cordero e Vittorio Grevi).

Anch’essi, al fondo della questione, denunziano il travalicamento del rapporto tra atto e sua funzione, soprattutto quando ciò appartiene alla sfera della investigazione non del giudizio, e, peggio, l’esposizione di valutazioni di responsabilità in provvedimenti con funzioni «interlocutorie».

Perciò, appare ancora più sconcertante il comportamento di chi, avendo compiuto una torsione del proprio ruolo istituzionale per le ragioni appena dette, si appropri, alterandone il senso, delle opposte argomentazioni ai fini della conferma del proprio operato.

Questa operazione non è solo socialmente scorretta, ma dimostra l’incapacità di cogliere il segno secondo cui apparire significa essere indipendente, e dunque neutrale, segno posto a tutela della credibilità della magistratura e del corretto «gioco» democratico.

Giuseppe Riccio

Professore ordinario di Procedura penale presso l’Università Federico II

(articolo tratto dal quotidiano “Il Mattino” del 27/07/2007)