Ho letto di un Luciano Violante che riflette sui guasti della giustizia e sul corporativismo dei magistrati, prendendo le distanze dall’Associazione Nazionale Magistrati. La notizia è presentata come una specie di conversione, o, almeno, inversione di marcia.
Si tratta, in realtà, di recensioni preconfezionate, di una lettura assai superficiale di un suo libro, “Magistrati”. Violante è uomo di grandi responsabilità e solida intelligenza.
Quel che oggi scrive non è diverso da quel che ieri fece, sicché non gli è contestabile l’incoerenza, né riconoscibile l’evoluzione. Più semplicemente, ha preso le misure del mostro cui una politica dissennata ha dato vita.
Ha davanti le proprie stesse colpe, che gli incutono timore, al punto da cercare di cambiare le carte in tavola.
Violante fu giovane magistrato, a Torino, da dove emerse quale uomo di riferimento del Partito Comunista nel mondo della giustizia, fino a divenire il non occulto regista della politicizzazione dei magistrati.
Certo, lo fece con grandezza. Non ambiva alla carriera, puntava allo Stato. Non disdegnando, nel frattempo, il far carriera. E’ giunto ad avere un potere enorme. Ha prima fatto fuori Giovanni Falcone e poi messo al suo posto un proprio sodale, Giancarlo Caselli.
Oggi fa finta di scandalizzarsi per quanti avversarono Falcone, e fa finta di raccontare che prevalse il criterio dell’anzianità, nella scelta del capo della procura di Palermo. Bubbole, furono lui ed Elena Paciotti, prima presidente dell’Anm, poi membro del Consiglio Superiore della Magistratura, infine parlamentare europea eletta dai comunisti, a silurare quello che oggi ricordano bugiardamente.
Il suo potere lo portò ad indicare la via per processare Giulio Andreotti, lasciando il lavoro perdente a Caselli, dopo che l’operazione politica era conclusa.
Alla fine del percorso, però, anche Violante ha perso, il mostro gli si è rivoltato contro, e la sconfitta cominciò alla procura di Milano, durante l’inchiesta Mani Pulite. Datemi qualche minuto, perché questa è una storia interessante.
Lui lo dice con parole diverse, ma nel libro si allinea ad un’interpretazione che noi sosteniamo da anni: la deviazione cominciò con la lotta al terrorismo.
Fu in quell’occasione che la politica firmò una delega in bianco alla magistratura. Offrì uno strumento importante, il reato di “banda armata”, che consentiva un enorme potere discrezionale nel mettere e tenere in galera.
I magistrati di sinistra furono i più attivi, meritoriamente. Al terrorismo seguì la mafia, anche in questo caso mediante l’approntamento di un’arma impropria: il reato di “associazione di stampo mafioso”, che, accompagnata dal “concorso esterno”, consentì ai magistrati di inquisire e rovinare, quando non ingabbiare, chiunque. Nel biennio 1992-1994 la magistratura s’era già trasformata da ordine in potere, aveva già affermato la propria indipendenza dalla legge scritta, e ritorse le due deleghe passate contro il delegante, cancellando parte del mondo politico.
Violante, che aveva costruito ed accudito le prime due violazioni, rizzò subito le orecchie. La vecchia scuola leninista s’avvide di un pericolo che sfuggiva all’Italia stracciona e vociante: l’usurpazione della politica.
Non è un caso che Violante ricordi il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), per sottolineare che il Pci si espresse a favore, contrastando l’interesse corporativo delle toghe. Lo fece a ragion veduta, perché Violante non è mai stato favorevole al partito dei magistrati, semmai ai magistrati funzionali all’interesse del partito. Il suo. Cade, però, in contraddizione, quando afferma che cinque anni dopo gli italiani erano tutti dalla parte della magistratura, e lo erano da tempo. Al citato referendum avevano votato in massa (80,20%) contro l’irresponsabilità giudiziaria!
Veniamo al punto fondamentale. Violante non fa una piega, nel ripetere che i partiti democratici della prima Repubblica caddero a causa del loro finanziamento illecito. E, ancora una volta, dimentica di dire qualcosa su quello del Pci.
Ma ricorda che già allora, nel 1993, aveva avvertito l’intollerabilità di un “governo dei giudici”. Solo che si mantiene sul teorico, omette l’analisi politica: al contrario di quel che era avvenuto con terrorismo e mafia, quella volta i magistrati non erano i suoi. Francesco Saverio Borrelli era stato appoggiato dai socialisti. Antonio Di Pietro è considerato di sinistra solo da chi non sa cosa la sinistra dovrebbe essere.
Gerardo D’Ambrosio salvò il Pci (che poi lo portò in Parlamento), ma non aveva in mano le indagini. Violante capì subito il pericolo, cominciando a denunciare l’“alterazione dei rapporti”.
Fino a quel momento l’opera di Magistratura Democratica e di Violante era stata diretta ad assumere la Costituzione come unica guida, profittando della indeterminatezza declamatoria (e cattocomunista) di non pochi articoli e, quindi, piegando l’interpretazione giuridica agli interessi di parte.
Una deviazione profonda e pericolosissima, che, però, fu assecondata, trovando solo in Cassazione qualche residua resistenza (sicché provvidero a far fuori, sempre per via giudiziaria, chi in quella sede s’opponeva).
Ma il rito milanese si discostava da quell’andazzo, e sebbene portasse benefici ai ribattezzati comunisti, conducendo lo stesso Violante a presiedere la Camera dei Deputati, non di meno non erano più loro a tenerne la guida, ma le non rosse toghe di quella procura.
Preso atto della sconfitta politica, pertanto, Violante passa ad avvertire dei pericoli connessi, compresa la degenerazione dell’Anm e del Csm.
Ha perfettamente ragione, ma limitarsi a descrivere questa, omettendo il resto, può farlo solo chi ha una vocazione alla falsificazione, o una naturale propensione all’ignoranza ed al luogocomunismo. Noi conosciamo i nostri polli, e ricordiamo la loro marcia contro il diritto.
DAVIDE GIACALONE
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