sabato, ottobre 06, 2007

L’ingiustizia mediatica.


I magistrati parlano con le sentenze. Per essere davvero credibili devono esprimersi attraverso il loro ruolo, e in nessun altro modo.

Lo esige l’indipendenza della magistratura che è un valore alto e importante; un valore che impone non solo l’essere ma anche l’apparire. L’indipendenza dal potere politico (sacrosanta) non può significare antagonismo con la politica.

In questo quadro, lo scenario che ha visto ieri due magistrati di questa Repubblica sostenere in un dibattito tv di essere stati intimiditi per aver scoperchiato pentole maleodoranti che non andavano aperte ha suscitato reazioni molto forti.

E non è facile prevedere quali saranno le conseguenze di questo ennesimo braccio di ferro tra giustizia e politica. C’è chi ha parlato di una nuova «bufera» tra i due poteri dello Stato.

E ciò quasi a voler minimizzare l’episodio e a inserirlo nella lunga catena di contrapposizioni che in questi anni hanno scandito le polemiche tra il mondo delle toghe e quello delle istituzioni. Stavolta, invece, è accaduto qualcosa di assai più complesso e difficile da cancellare.

A differenza del passato, quando la polemica si dipanava tra gli addetti ai lavori e all’opinione pubblica gli echi arrivavano filtrati dai mezzi di comunicazione, stavolta milioni di telespettatori hanno ascoltato in presa diretta parole che mai, forse, si sarebbero aspettati di sentir pronunciate da due rappresentanti dell’Ordine giudiziario.

Una condanna, per certi versi ancora più grave, va mossa alla «confezione» del programma tv. L’abilità del regista e del conduttore, e il sapiente calibrare dei tempi e delle pause, l’alternanza di filmati e riprese di platee affollate di cartelli e giovani vocianti, hanno reso ancora più forte il contenuto di quella che è stata una denuncia grave e fortemente emotiva.

E c’è da chiedersi che effetto essa ha avuto sull’uomo della strada, sul cittadino utente della giustizia, sulle migliaia di persone che aspettano anni prima di veder riconosciuto un loro diritto. In tanti avranno pensato che, oltre a non essere uguale per tutti, la giustizia è davvero umiliata e offesa dai poteri forti.

Ma quanti ci hanno creduto? E quanti invece si sono convinti del contrario? Più volte è stato sostenuto che i magistrati non devono essere lasciati «senza parola e senza ascolto». Un’osservazione non solo condivisibile, ma opportuna e giusta. A patto però che il magistrato non si lasci andare ad accuse tutte da dimostrare contro le istituzioni o a comizi destinati a creare nuova sfiducia nella giustizia.

E, per di più, alla vigilia di una riunione del Csm che dovrà giudicare l’operato di almeno uno di loro. Nulla impedisce a un magistrato che si sia sentito condizionato o, peggio, minacciato nel suo lavoro, di denunciare nelle sedi competenti tutto quello che egli ritiene debba essere sanzionato anche in sede penale.

Ma usare il mezzo televisivo significa voler conseguire una finalità tutta diversa, che non sempre coincide con quella di veder trionfare la verità. I due rappresentanti dell’ordine giudiziario protagonisti della pubblica denuncia televisiva sanno bene di appartenere a un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere dello Stato.

E come tali essi avevano e hanno il diritto di essere tutelati in tutte e per tutte quelle che sono le loro guarentigie costituzionali. Ma per conseguire un tale risultato si debbono usare gli strumenti che la legge mette a disposizione di tutti i cittadini di questa Repubblica. Solo in un secondo momento, nel caso in cui la giustizia non faccia il suo corso, una pubblica protesta sarebbe forse accettabile.

Anche da un rappresentante dell’ordine giudiziario. È stato detto in passato che non tutti i magistrati si sono appropriati dell’ideologia del servizio che è l’antitesi di quell’abuso di libertà che Montesquieu definiva «arroganza del potere».

Di certo la professione che la magistratura esercitava tanti anni fa era intesa come una sorta di sacerdozio laico. Ora i tempi sono cambiati e quella visione è morta e seppellita.

Anche se esiste una minoranza di giudici che ancora la pensa così, che si considera al servizio della collettività e che, pur nella carenza di mezzi e di strutture della macchina giudiziaria, lotta affinché la giustizia, quella vera, amministrata nel nome del popolo italiano, trionfi sulle illegalità, sulla sopraffazione dei poteri forti.

Ma è una minoranza silenziosa alla quale non viene concesso il lusso dei microfoni e delle piazze telematiche e che parla alla gente con le sue sentenze, nel rispetto del principio costituzionale secondo il quale il giudice è soggetto solo alla legge.

Fino a qualche anno fa la terzietà, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura era considerata, fino a prova contraria, fuori discussione. Sandro Pertini disse una volta che il giudice non deve solo essere imparziale, ma apparire tale.

Quella grande, sacrosanta verità è stata vanificata dalla politicizzazione della magistratura, della sua divisione in correnti ideologiche che condiziona nomine, promozioni e carriere e spesso fa da anticamera all’ingresso nei Palazzi della politica.

Roberto Martinelli

(tratto dal quotidiano “Il Mattino”)