Con decisione perentoria e insindacabile, il tribunale ordina che il suddetto sia immediatamente reintegrato nel suo posto di lavoro.
Il problema è comunicargli la lieta notizia: da undici anni riposa in pace, sotto la pietra tombale di una pietà negata.
All'epoca, nel 1995, questa storia viene catalogata sotto la voce assenteismo. Il titolare della pessima fama è Gianpietro Caredda, un docente di educazione artistica nella scuola media «Dante Alighieri» di Selargius, a pochi passi da Cagliari.
Effettivamente, il professore manca parecchio dalle aule: purtroppo per lui, è vittima di depressione. Molti sanno bene che cosa significhi svegliarsi la mattina con la prospettiva di andare al lavoro, magari in mezzo a classi di ragazzini scatenati, quando un tarlo devastante toglie persino la forza di uscire dal letto. E chi non lo sa deve solo augurarsi di non saperlo mai.
Il professore è in gravissima crisi per un problema molto serio: quattro anni prima, sua moglie è morta giovanissima, lasciandolo solo con due figlie ancora ragazzine, Marzia e Manuela, di dieci e di quindici anni. Una vita difficile. Di sacrificio, di solitudine, di dolore irrisolto.
Nella nazione degli assenteisti professionali che nessuno impallina mai, soprattutto quando si assentano per viaggi ai Caraibi e settimane bianche, il professor Caredda ha motivi quanto meno plausibili per assentarsi.
Semplicemente, è malato. Finisce pure in ospedale. Come previsto dalla legge, chiede un periodo d’aspettativa. Poi un altro. E si arriva in questo modo al giugno ’95, fine dell'anno scolastico.
Il preside, che ovviamente deve badare anche alla regolarità delle lezioni e garantire agli studenti una continuità di insegnamento, decide di risolvere definitivamente il problema. Chiede al Provveditorato di licenziare il professore. Una determinazione che ha del paranormale, in questa nostra comunità che tollera e comprende tutto, soprattutto le manfrine e le recite dei furbastri di talento.
Caredda no, non merita più d'essere sopportato: la scuola italiana, che non licenzia mai nessuno, tanto meno gli sfaticati e gli idioti, se ne libera per decisione ferma dello stesso Provveditore. Via, con la simpatica patente dell'assenteista.
«Decadenza per ingiustificata assenza»: a partire dal 2 giugno 1995, festa della Repubblica. Proprio una bella festa, proprio una bella Repubblica. Pochi mesi dopo, la vita del professor Caredda si presenta come un affresco dai toni idilliaci: vedovo, due orfane da allevare, malato di depressione, senza lavoro. Poco tempo dopo, nel '96, si ammazza. Arduo provare che si tratti solo di una disgraziata coincidenza.
Al povero professore di disegno sopravvive il dolore delle due figlie e un ricorso tentato contro il licenziamento. La figlia più grande, che nel frattempo si è fatta maggiorenne, decide di continuare la battaglia, perché al papà siano restituiti almeno la dignità e l'onore, brutalmente sfregiati con l'odioso epitaffio firmato dalla burocrazia: «Fu assenteista».
Una battaglia dai tempi biblici. Ma forse è meglio smetterla di tirare in ballo la Bibbia: è semplicemente una maledetta e avvilente battaglia dai tempi italiani.
Dodici anni dopo il licenziamento, undici anni dopo il suicidio, il professor Caredda accoglie la riabilitazione postuma. Per come sta messo ora, per dove sta messo ora, non sarà una notizia tale da sconvolgergli la vita. Le parole che si leggono sulla sentenza, annunciata dal quotidiano Sardegna tra lo stupore generale, sono pietre: con quel buonsenso troppo a lungo sparito da questa storia, semplicemente la giustizia sostiene le ragioni del professore, sottolineando come sarebbe bastato metterlo in aspettativa. Cioè aspettarlo.
Che poi il Tar stabilisca il reintegro del docente nel suo posto di lavoro, è solo un elemento di amarissima riflessione generale.
In primo luogo sulla paurosa schizofrenia del nostro apparato scolastico, e pubblico in generale, tanto umano e comprensivo nei confronti dei parassiti veri, tanto zelante e spietato nei confronti di uno sventurato. In secondo luogo la riflessione amara è ancora e sempre sui tempi della nostra giustizia, ma da questo punto di vista poco resta da dire, perché tutto abbiamo già detto.
Se non altro, un applauso al talento e alla creatività, che spostano ogni volta più in là i limiti ritenuti insuperabili: dodici anni per reintegrare un professore licenziato è qualcosa di sovrumano.
Un po', anche disumano.
Cristiano Gatti
(tratto dal quotidiano “Il Giornale”)