I magistrati sono tornati negli studi televisivi.
Dal momento in cui due di essi, Clementina Forleo e Luigi de Magistris, calcano come primattori le scene della politica italiana, il confronto tra la crisi attuale e quella del 1992 sembra ancora più calzante.
Ancora una volta l'Italia è attraversata da un vento di scandali e indagini giudiziarie che coinvolgono quasi sempre parlamentari e ministri. In realtà esistono — fra il '92 e oggi — alcune differenze.
All'epoca di Mani pulite un'intera Procura, la Procura di Milano, sembrava credere nella prospettiva di una via giudiziaria ai mali del Paese e scriveva, con avvisi di reato e mandati di cattura, l'agenda politica della nazione.
La «gente» guardava e applaudiva, ma aspettava che il menù del giorno venisse deciso dal Palazzo di giustizia della «capitale morale».
Oggi Forleo e de Magistris, come Beppe Grillo, sono soltanto gli occasionali beniamini di una folla che esprime tumultuosamente la sua rabbia ma non ha un leader.
Non esistono tribunali perché questa enorme giuria popolare conosce già i colpevoli e vuole la loro testa. Paradossalmente non è neppure necessario sapere quale sia il contenuto delle intercettazioni depositate negli archivi di Milano e Catanzaro.
La parola «intercettazioni» è già, di per sé, una prova sufficiente. Basta pronunciarla perché le tricoteuses (le megere che facevano la maglia a Parigi, in piazza della rivoluzione, mentre il boia Samson tagliava teste a passo di carica) chiedano una metaforica decapitazione.
Di fronte a questo fenomeno la classe politica sembra incerta, disorientata o, più semplicemente, ottusa. Qualcuno apre l'ombrello, come faceva Agostino Depretis nell'Ottocento, e aspetta che passi la bufera.
Qualcuno reagisce rabbiosamente come Clemente Mastella. Altri invece pensano che occorra fare gesti concilianti e lanciano alla folla, fuggendo, qualche boccone: la riduzione del numero dei parlamentari (quando?), il dimagrimento dei consigli d'amministrazione e delle istituzioni locali, la diminuzione delle auto blu, la sostituzione dei telefoni negli uffici pubblici con le comunicazioni via computer e, naturalmente, la soppressione degli enti inutili, logoro ritornello della politica italiana.
Francesco Merlo ha descritto bene l'«affannosa rincorsa del palazzo» ( Repubblica di ieri) e ha individuato in queste concessioni dell'ultimo minuto un segno del fossato che si sta aprendo nel Paese tra una parte considerevole della società e i suoi rappresentanti.
Esiste tuttavia un altro scollamento, ancora più pericoloso.
La folla di Beppe Grillo è convinta che i mali dell'Italia dipendano dai privilegi della casta e ne chiede la soppressione. Crede che quando i politici andranno a piedi e avranno il salario di un operaio specializzato, l'Italia avrà risolto i suoi problemi.
Al governo invece esiste un gruppo di persone (fra cui certamente Romano Prodi e Tommaso Padoa- Schioppa) per cui i veri nemici dell'Italia sono il debito pubblico, il lavoro nero e l'evasione fiscale.
Non possono dare retta alle grida della folla perché i loro temibili interlocutori di ogni giorno non sono gli italiani inferociti, ma i ministri e i partiti della coalizione, sempre pronti a spendere e a spandere.
Forse l'immagine che meglio rappresenta l'Italia d'oggi è la forbice, vale a dire uno strumento che funziona bene soltanto quando le due lame sono coordinate da una stessa mano e lavorano insieme.
Ma da noi mentre una lama vuole tagliare il debito, l'altra vuole tagliare le teste. La forbice, in queste condizioni, non può fare né l'uno né l'altro.
Sergio Romano
(tratto dal quotidiano "Il Corriere della Sera")