sabato, ottobre 20, 2007

La sentenza sul “caso Eluana” stravolge il diritto.


La sentenza della Corte di Cassazione sulla vicenda della ragazza di Lecco che vive in stato vegetativo da oltre 15 anni ha riaperto in Italia il dibattito sull’eutanasia.

C’è chi ha, infatti, interpretato questa sentenza come l’introduzione di un “diritto a morire”.

Per gettare luce sulla vicenda è stato intervistato il prof. Alberto Gambino, Ordinario di Diritto civile all’Università di Napoli “Parthenope” e docente di Diritto privato all’Università Europea di Roma, il quale, durante il Congresso internazionale per i 50 anni del Trattato europeo, svoltosi lo scorso giugno a Roma, ha presentato una relazione dal titolo “Il paradosso giuridico del testamento biologico”.

Cosa dice esattamente la sentenza della Cassazione?

Prof. Alberto Gambino: La sentenza afferma che si può autorizzare la cessazione delle terapie di un paziente in stato vegetativo “irreversibile”, ove si ritenga, in base ad alcuni elementi di prova, che questa sia la sua volontà.

In base a quali principi dell’ordinamento italiano ciò sarebbe possibile?

Prof. Alberto Gambino: Si richiama il principio costituzionale della libertà di rifiutare le terapie medico-chirurgiche, che, tuttavia, nel caso di specie, è stata retrodatata a “precedenti dichiarazioni”; è stata desunta dallo “stile di vita”, da presunti “convincimenti”.

Si dà dunque rilievo alle “dichiarazioni anticipate di trattamento”, meglio note come testamento biologico?

Prof. Alberto Gambino: Sì, la sentenza vorrebbe indicare come vada bilanciato il valore del diritto alla vita con una presunta volontà contraria del paziente, accompagnata da una condizione di “irreversibilità vegetativa”.

Concorda con questa impostazione?

Prof. Alberto Gambino: No, è erronea in punto di fatto e in punto di diritto. E’ priva, inoltre, di logica giuridica.

In che senso?

Prof. Alberto Gambino: E’ erronea in punto di fatto per due motivi. Primo perché è pacifica tra gli anestesisti l’impossibilità di accertare quando uno stato vegetativo è irreversibile. Dunque il presupposto su cui si muove la sentenza viene meno: non è affatto provato che il paziente non possa tornare in uno stato di coscienza ed esprimere la sua volontà.

Il secondo motivo è che il rifiuto di alimentazione ed idratazione non è rifiuto di terapie. Dare da bere e da mangiare ad un paziente, per quanto artificialmente, non è una cura ad una patologia, ma l’assolvimento di un bisogno essenziale dell’individuo. Se si pensa di troncare un’esistenza non soddisfacendo le esigenze primarie di una persona, credo che si sia davanti ad un caso di vera e propria eutanasia.

Cosa c'è che non la convince da un punto di vista giuridico?

Prof. Alberto Gambino: Laddove fossero superabili le obiezioni che ho appena sollevato – ma davvero non vedo come – resta difficile spiegare come sia possibile richiamarsi alla libertà del rifiuto della cura dinanzi ad una volontà inespressa. Risalire a “comportamenti”, “stili di vita”, “dichiarazioni pregresse” per stabilire ciò che si deve decidere ora e in questa situazione, significa davvero non tenere conto della reale volontà del paziente, che, per essere libera, deve essere attuale, circostanziata e contestualizzata. E’ pericolosissimo retrodatarla perché si finisce per farsi interpreti, arbitrari, di una presunta volontà altrui, secondo i propri desideri, per quanto essi siano motivati e sofferti.

Lei, in un recente congresso all'Università “La Sapienza” di Roma ha parlato di “paradosso” del testamento biologico...

Prof. Alberto Gambino: Sì, lo confermo. Nella dinamica del cosiddetto testamento biologico si annida un vero e proprio paradosso giuridico che usa la logica alla rovescia: si vuole tutelare la libertà dell’individuo di rifiutare le cure e poi quella libertà viene esercitata da vari soggetti tranne che dal suo effettivo titolare.

Ho l’impressione che siamo davanti ad un’analisi fondata più sullo schema costi/benefici che non sulla reale salvaguardia della libertà di cura del paziente. Il malato in stato vegetativo così finisce per essere considerato un “peso” sociale, che, per quanto umanamente pesante, non potrà mai ridurre il valore della persona-soggetto di diritto ad un bene disponibile come se fosse una cosa.