mercoledì, ottobre 22, 2008

Di Pietro e Machiavelli.


Le norme non valgono più di coloro che le applicano.
Se le interpreta un homo bonus, dicendi peritus (un galantuomo che sa di diritto, come i romani definivano il giurista), anche una legge mediocre darà buoni risultati.
Viceversa non c’è legge, per quanto ben fatta, che in mano ad un giudice incolto o disonesto non conduca a risultati disastrosi.
Machiavelli ha stabilito la legge secondo cui in politica le norme etiche vanno invocate solo per ricavarne il cinico vantaggio di apparire virtuosi: nella realtà bisogna assolutamente guardarsi dall’applicarle, diversamente si darebbe ai nemici un vantaggio incolmabile.
Il Principe deve lodare la verità senza dirla, predicare la santità della parola data senza mantenerla, celebrare il valore dei patti per poi violarli.

Ma anche una legge “immorale” va applicata con intelligenza.
Nel Cinquecento questi principi funzionavano perfettamente perché era un’epoca in cui la grande massa del popolo era composta da analfabeti; in cui mancavano i moderni mezzi di comunicazione; in cui bastava che il Signore si facesse vedere inginocchiato in chiesa per farsi credere un uomo buono e pio. Oggi è diverso.
L’informazione penetra dappertutto. Un politico non può avere un’amante che i giornali lo scoprono; non può usare l’auto di servizio che rischia un processo per peculato; non può rimangiarsi un’affermazione che subito i media lo svergognano.
Non è cambiato il diritto d’essere immorali in politica: è cambiata la facilità di beneficiarne.
Oggi il segretario fiorentino si rassegnerebbe a dire: avete il diritto di essere dei farabutti, ma la cosa è talmente pericolosa che vi conviene essere morali.
Di Pietro è fermo ad una lettura cinquecentesca di Machiavelli.
Una volta ottenuta l’associazione col Pd, non ha fatto altro che tradire i patti – ad esempio quello del gruppo unico e quello dell’unità d’azione – e ha solo tirato l’acqua al proprio mulino.
È andato avanti a colpi di estremismo, di esagerazioni retoriche, di demagogia. Non ha badato a niente e a nessuno. Non ha visto che il proprio profitto e non ha tenuto nessun conto delle ragioni che hanno fatto nascere il Pd.
Questo partito infatti, per modernizzarsi, ha rinunciato agli atteggiamenti più grevi e fanatici e soprattutto si è amputato degli alleati di estrema sinistra.
Ha capito che il loro massimalismo da un lato non l’avrebbe portato alla vittoria, dall’altro non gli avrebbe comunque permesso di governare.
Di Pietro invece ha solo pensato che, se erano stati eliminati certi partiti, non era stata eliminata la loro base elettorale: e per questo si è buttato a corpo morto ad impadronirsene.
Ha cominciato ad esprimersi come Diliberto, come Pecoraro Scanio, come i girotondini, e con la sua concorrenza sleale il progetto politico del Pd l’ha affossato. Oggi una vittoria del centro-sinistra è meno verosimile che nell’aprile di quest’anno.
In questi mesi, mentre il Pd è sembrato logorarsi, l’ex-magistrato ha acquistato una visibilità sproporzionata.
Ha sfruttato con ogni mezzo e senza nessuno scrupolo la leva dell’estremismo popolare e ha visto aumentare le intenzioni di voto a suo vantaggio, per esempio in Abruzzo. Si è comportato come il Principe. E fin qui bisognerebbe applaudirlo.
Ma le idee vanno applicate con intelligenza: diversamente esse si rivoltano contro chi le vorrebbe sfruttare.
Se il Pd si mantiene fermo nella scomunica – ma la coerenza non è il forte dei partiti - Di Pietro si troverà a combattere da solo: la fama d’inaffidabile e d’egoista è infatti un bagaglio molto scomodo.
Quando si dovesse tornare a votare, in un quadro tendenzialmente bipartitico, chi l’accetterebbe in una coalizione? O quante probabilità ci sono che, come alternativa a Berlusconi, l’Italia sceglierebbe Di Pietro?
Per la virtù Machiavelli oggi consiglierebbe a Di Pietro di predicarla un po’ di meno e praticarla un po’ di più.
Scritto da Gianni Pardo - martedì 21 ottobre 2008
giannipardo@libero.it

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