martedì, marzo 11, 2008

Corte Costituzionale: le incapacità personali del fallito non devono perdurare dopo la chiusura del fallimento.


Dalla sentenza n. 39/2008 della Corte Costituzionale:

“Così identificati i termini della questione soggetta a scrutinio, se ne rileva la fondatezza per contrasto con gli artt. 117, primo comma, e 3 della Costituzione.

Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi.

Ora, riguardo alle incapacità personali connesse allo stato di fallito, con specifico riferimento agli artt. 50 e 143 della legge fallimentare all'epoca vigente, la Corte di Strasburgo, con numerose pronunce (si veda, ex plurimis, la sentenza 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia, ric. n. 77962/01), ha ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un'ingerenza «non necessaria in una società democratica».

La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a causa della natura automatica dell'iscrizione del nome del fallito nel registro e dell'assenza di una valutazione e di un controllo giurisdizionali sull'applicazione delle incapacità discendenti dalla suddetta iscrizione e del lasso di tempo previsto per ottenere la riabilitazione, l'ingerenza prevista dall'art. 50 della legge fallimentare nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti non è necessaria in una società democratica, ai sensi dell'art. 8, § 2, della Convenzione», e ha dichiarato l'avvenuta violazione del citato art. 8, dopo aver precisato che la nozione di “vita privata” presa in considerazione da tale norma, «non esclude, in linea di principio, le attività di natura professionale o commerciale, considerato che proprio nel mondo del lavoro le persone intrattengono un gran numero di relazioni con il mondo esteriore».

Nel contempo le disposizioni censurate, in quanto stabiliscono in modo indifferenziato incapacità che si protraggono oltre la chiusura della procedura fallimentare e non sono, perciò, connesse alle conseguenze patrimoniali della dichiarazione di fallimento ed, in particolare, a tutte le limitazioni da questa derivanti, violano l'art. 3 Cost. sotto diversi profili.

Esse, infatti, poiché prevedono generali incapacità personali in modo automatico e, quindi, indipendente dalle specifiche cause del dissesto – così equiparando situazioni diverse – e in quanto stabiliscono che tali incapacità permangono dopo la chiusura del fallimento, assumono, in ogni caso, carattere genericamente sanzionatorio, senza correlarsi alla protezione di interessi meritevoli di tutela.

Deve essere, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 50 e 142 della legge fallimentare di cui al r.d. n. 267 del 1942, nel testo vigente prima della riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, in quanto stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale”.