giovedì, giugno 10, 2010

Giurisprudenza:numero programmato per la professione di avvocato.


Abbiamo nel nostro Paese un tessuto universitario contraddittorio e opaco. Esistono facoltà universitarie che, nonostante offrano forti possibilità di impiego dopo la laurea, non hanno iscritti o ne hanno pochi; altre facoltà che, invece, hanno adottato il numero chiuso, in quanto il mercato del lavoro non è in grado di assorbire tanti laureati e, quindi, tanti professionisti per quella disciplina; altre facoltà, infine, che hanno iscrizioni illimitate e sbocchi lavorativi contenuti. Ebbene, nei punti essenziali per la riforma della professione di avvocato l’Oua ha chiesto che sia inserito il numero chiuso nelle facoltà di Giurisprudenza.
A ciò si dovrebbe aggiungere il numero programmato dei laureati per il transito, previo concorso, dall’università alla professione, come accade in Francia. In quel Paese, infatti, dopo la laurea è previsto un corso annuale integrativo che indirizza verso la professione di avvocato e prepara, quindi, i neolaureati ad entrare, con un rigoroso esame di accesso, nella scuola di formazione forense gestita dall’Avvocatura francese. Vi entrano dai 2 mila ai 3 mila laureati all’anno. La Francia ha un numero di abitanti simile al nostro, ma conta circa 45 mila iscritti all’albo degli avvocati e ha ottenuto siffatta selezione partendo proprio dall’università e dall’accesso alle scuole di formazione. In linea con quanto esposto va dato atto che giornali, opinione pubblica e settori autorevoli della politica hanno condiviso la necessità di assumere iniziative legislative per combattere il sovraffollamento di alcune professioni in Italia, tra le quali figura al primo posto la professione forense. Non è possibile varare una credibile riforma della professione conservando lo stesso numero di laureati che hanno diritto all’accesso. Bisogna, al contrario, studiare una riforma che elevi non solo la preparazione e quindi migliori tutto il settore inerente la formazione, ma anche il livello meritocratico.
Non è ammissibile, infatti, che vi siano nell’Albo forense il 40 per cento di disoccupati intellettuali - questa è la cifra per la professione di avvocato - e un precariato determinato dall’università che consente l’ingresso indiscriminato alimentando aspettative che vengono sistematicamente deluse. Abbiamo, infatti, un precariato professionale che, come qualcuno ha detto, nelle statistiche è sottratto con artificio alla disoccupazione generale, in quanto si ritiene, a torto, che chi è iscritto all’Albo forense sia una persona che sicuramente lavora. Si pensi che fra le richieste avanzate per diventare giudici onorari e giudici di pace vi sono 40 mila domande presentate da avvocati. Poiché la normativa sul giudice onorario sarà modificata introducendo l’incompatibilità di questa attività con quella di avvocato, ciò significa che questi 40 mila avvocati, per ricercare un’occasione di lavoro, preferiscono inoltrare domanda per diventare giudici onorari, i quali attualmente lavorano a cottimo, sono precari, non usufruendo nemmeno della copertura previdenziale.
Il numero chiuso all’università o programmato dall’università è fondamentale per risolvere il problema del sovraffollamento degli Albi forensi. La vera innovazione di un’auspicata riforma è creare dei professionisti preparati e selezionati, garantendo così la competitività nel mercato del lavoro.
La competitività va collegata all’apprezzamento dei clienti che scelgono l’uno o l’altro professionista a seconda dei meriti e delle qualità, non a seconda dei cosiddetti «prezzi calmierati» nella moltitudine delle offerte di prestazioni professionali.
I professionisti non vendono prodotti ma offrono prestazioni intellettuali. Quanto all’Europa, sia la direttiva Qualifiche (cosiddetta Zappalà) sia la direttiva Servizi prevedono una normativa che stabilisce, per le professioni e in particolare per gli avvocati, rigore e selettività. Il pericolo è che la direttiva Servizi venga recepita senza averne colto il segnale. Premesso che i notai sono esclusi e che la stessa direttiva Zappalà e le direttive che riguardano la professione di avvocato prevalgono sulla direttiva servizi, in quest’ultima si sancisce testualmente che le regole fissate per le liberalizzazioni possono essere derogate dai codici deontologici e dagli ordinamenti di ciascun Paese in relazione alle attività svolte e alle peculiarità nazionali.
L’Unione europea, quindi, non prevede una legislazione professionale invasiva. Come si sa in Europa vige il principio della sussidiarietà. In alcune materie l’Europa interviene massicciamente; in altre - come il lavoro, la previdenza, le professioni e così via - interviene solo in parte con pieno rispetto delle identità nazionali.
Non c’è un’Europa che agisce come uno Stato unitario. L’Unione europea opera con obiettivi diversi che vengono condizionati e limitati, segnatamente in alcune materie, dall’autonoma normativa dei singoli Stati. Se si legge bene la direttiva Servizi, ci si rende conto che non c’è motivo di avere paura dell’Europa, in quanto essa già consente alle professioni italiane di dotarsi di un ordinamento più rigoroso e confacente alla propria storia e identità nazionale. Anche se solleverò un po’ di polemica dicendo questo, vorrei aggiungere un’osservazione che mi pare possa interessare le rappresentanze delle professioni regolamentate. Il decreto Bonino-Mastella è errato e fuorviante. La direttiva Zappalà, che detta le regole sulle qualifiche professionali, non stabilisce che si possano istituire nuove professioni (quelle non regolamentate) con decreto ministeriale. A tal fine occorre una legge. Infatti, poiché in Europa alcuni Paesi sono organizzati senza prevedere gli ordini professionali, e poiché le regole europee vigono principalmente per gli ordini e per le professioni regolamentate, la direttiva sulle qualifiche - prevedendo uno specifico allegato 1 - stabilisce che professionisti dei Paesi anglosassoni, i quali hanno le società o associazioni e non gli ordini professionali, devono essere equiparati ai professionisti iscritti agli ordini professionali. La direttiva Qualifiche non stabilisce, dunque, che in ogni Paese dell’Europa unita debba esistere un sistema duale. Il sistema duale esiste solo per tutelare in Europa ed equiparare ai professionisti cosiddetti «regolamentati» i professionisti iscritti negli Stati del mondo anglosassone che è fondato sulla common law, che si distingue nettamente dal mondo latino e continentale, che è fondato sulla civil law, che riguarda lo statuto di gran parte dei professionisti europei. Un avvocato dell’ordinamento anglosassone che viene in Italia è protetto dalle direttive Qualifiche.
Ma nessuna norma o direttiva europea, almeno fino a oggi, sancisce che il sistema anglosassone sia esportabile automaticamente e acriticamente in altri Paesi dell’Europa unita.
È vero che il problema esiste in Italia dove esistono professioni non regolamentate che devono essere riconosciute, ma il riconoscimento dovrà avvenire per legge e non per decreto, e dovrà limitarsi alle nuove professioni e non a quelle che si sovrappongono alle esistenti. Dalla professione di avvocato, che comprende anche l’attività di consulenza, non si può estrapolare un Albo dei consulenti giuridici, un altro dei consulenti in materia di diritto di famiglia e via elencando. Esiste, infatti, già la professione di avvocato, ed è questa professione che bisogna potenziare e rendere più specialistica. Analogo principio vale per tutte le altre professioni regolamentate. Devo, inoltre, segnalare che la riforma forense, che sta procedendo al Senato, potrebbe rappresentare un progetto pilota per le altre professioni. Ricordo che agli inizi degli anni Ottanta per gli avvocati si approvò una legge di riforma previdenziale che cambiava completamente il sistema e lo rapportava ai redditi. Tale legge è stata estesa a numerose altre professioni. E ha sortito positivi effetti. Negli anni Ottanta e Novanta i redditi dei professionisti sono aumentati anche cinque volte il prodotto interno e non perché essi guadagnassero di più, bensì perché la legge di riforma della previdenza è servita a far comprendere che, se si voleva raggiungere una discreta pensione, era necessario denunziare le somme guadagnate e pagare i contributi dovuti alla Cassa. Per l’Avvocatura il problema della riforma dell’ordinamento è ancora più complesso. L’Organismo Unitario ha segnalato la necessità di riconoscere all’Avvocatura il ruolo di soggetto costituzionale: l’avvocato nel processo difende i cittadini e deve garantire i loro diritti in una posizione di parità all’interno della giurisdizione.
Al pari della Magistratura, l’Avvocatura è un soggetto costituzionale. Quando si parla di soggetto costituzionale si propone di conferire una disciplina di alto profilo all’Avvocatura e alla professione forense in cui sia presente anzitutto il rigore e che preveda un numero ben delimitato di soggetti attrezzati per difendere adeguatamente i diritti dei cittadini.
La riforma forense dovrà, quindi, essere completata attraverso la modifica della Costituzione nella sezione che riguarda la giurisdizione, e ciò segnerà un’ulteriore crescita dell’avvocato che non può continuare a stare sul mercato nelle condizioni attuali. Tale percorso, quindi, non presenta contraddizioni. Una cosa è l’avvocato che svolge attività di consulente delle imprese, bravissimo e necessario al Paese; altra cosa è l’avvocato che tutela i diritti e difende i cittadini nei processi. È necessario che vi siano delle caratteristiche particolari che identifichino l’avvocato che presta la propria opera davanti al giudice. L’attività è sempre privata, ma sono più forti le responsabilità per quanti di noi esercitano la funzione di difensore nei processi.

di Maurizio de Tilla, - Presidente OUA

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