La pedopornografia, spiega la Suprema corte con la sentenza 41570 di oggi, "esiste e si perpetua solo perché vi è a monte una domanda". Non solo. Guardare certi siti internet non è una esplicazione della propria libertà sessuale.
Insomma il collegio di legittimità ha respinto il ricorso di un 67enne milanese accusato di aver visitato dei siti pedopornografici a pagamento. In sostanza è stata confermata la decisione della Corte di appello di Milano che, a maggio 2006, lo aveva condannato ad un anno e sei mesi di reclusione.
Lui si era difeso sollevando, fra l'altro, una questione di legittimità costituzionale: "Il bene tutelato - si legge nel ricorso - che è quello del diritto ad un'infanzia serena, è certamente cospicuo; ma non si può, esprimendo una istanza solo moralistica, condannare un uomo solo perché si compiaccia di scene pornografiche o pedopornografiche, quando non abbia in alcun modo partecipato alla realizzazione del prodotto e non ne tragga un vantaggio economico. La Costituzione, del resto, tutela entro certi limiti il diritto di disporre della propria sessualità".
I giudici della terza sezione penale hanno bocciato integralmente il ricorso precisando che "appare invero che qualsiasi espressione della propria personalità e libertà possa essere considerata lecita e costituzionalmente garantita nella misura in cui la sua esplicazione non comporti danno per altre persone: specialmente se si tratti di soggetti incapaci di difendersi ed impossibilitati ad operare delle libere scelte. Anche perchè - continuano i giudici del Palazzaccio - è indubbio che tutta l'attività organizzata ai fini della produzione, diffusione e messa in commercio di certe immagini esiste e si perpetua solo perché vi è a monte una domanda: un pubblico, cioè, di consumatori che intenda acquistarle e detenerle. Pertanto, il comportamento di chi accede ai siti e versa gli importi richiesti per procurarsi il prodotto è altrettanto pregiudizievole di quello dei produttori".