martedì, maggio 28, 2013

Pubblicità mascherata: quelle furbizie vietate agli avvocati (Cassazione civile , SS.UU., sentenza 03.05.2013 n° 10304).

 
La Cassazione aggiunge un tassello alla disciplina delle pubblicità non consentite agli avvocati, seguendo un solco che sembra consolidarsi.
Nel commento a una precedente sentenza del CNF avevamo evidenziato che le riforme liberalizzatrici non consentono ai professionisti l’assoluta libertà di pubblicizzare la propria attività, ma che la regola deontologica distingue la pubblicità dalla informazione, proprio con lo scopo di evitare le pratiche non rispettose del decoro e della dignità.
La sentenza 3 maggio 2013, n. 10304 della Cassazione completa il quadro occupandosi della pubblicità mascherata da articolo giornalistico/intervista (e per ciò stesso vietata in quanto tendente a ingannare), valutandone anche il contenuto.
Nella fattispecie il titolo dell’intervista sembrava evidenziare una speciale competenza dei professionisti in materia commerciale e societaria internazionale, mentre il contenuto riguardava struttura dello studio, competenze diverse e numerose fotografie.
Malgrado il caso specifico (cioè l’illecito contestato) risalga al 2007, la Suprema Corte analizza anche la normativa in tema di pubblicità informativa introdotta successivamente, fino al d.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, evidenziando un percorso legislativo logico che possiamo così sintetizzare: con il “decreto Bersani” (decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito in Legge 4 agosto 2006, n. 248) sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio; con la c.d. ''Manovra bis'' (Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148), è precisato che la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l'attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, è libera.
Le informazioni devono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli, denigratorie; con il d.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, art. 4 comma secondo, si afferma che la pubblicità informativa deve essere funzionale all'oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l'obbligo di segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria.
Infine con la L. 31 dicembre 2012, n. 247, all’art. 10, è consentita all'avvocato la pubblicità informativa sulla propria attività professionale, sulla organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti.
La pubblicità e tutte le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive.
La pubblicità in argomento è quindi del tutto speciale e diversa rispetto a quella commerciale, senza alcuna assimilazione della professione all’attività di impresa.
Le norme sopra riportate affermano, in linea con il codice deontologico, che la pubblicità in senso tradizionale (esaltazione di un nome, di un marchio, di un servizio, anche senza evidenziare le sue caratteristiche) è vietata.
Quella consentita è solo l’informazione su attività professionale, specializzazioni e titoli professionali posseduti, struttura dello studio e compensi.
La sentenza in commento, per sgombrare il campo da ogni equivoco, analizza anche la normativa europea dalla quale, secondo i ricorrenti, deriverebbe un principio di assoluta libertà pubblicitaria: e smonta la tesi precisando che nulla autorizza una lettura della normativa comunitaria nel senso che essa consenta la realizzazione della pubblicità professionale anche con modalità classificabili come "pubblicità occulta" o che siano lesive della dignità e del decoro della professione: in verità, nel caso di specie, non è in discussione il "diritto" al libero esercizio di una "pubblicità promozionale" dell'attività professionale, bensì esclusivamente la modalità secondo la quale detta pubblicità sia realizzabile nel doveroso rispetto di precisi e specifici limiti deontologici disciplinarmente rilevanti.
Il principio che resta fermo, allora, è quello già ben enucleato da Cass., sez. unite, sentenza 18 novembre 2010, n. 23287: Il precetto della norma generale è: “non commettere fatti non conformi al decoro ed alla dignità professionale”.
Da tale precetto generale, il Consiglio dell’ordine è giunto alla tipizzazione di un precetto per il caso specifico, sia pure - come ogni precetto - ancora in astratto: “non effettuare alcuna forma di pubblicità con slogans evocativi e suggestivi, privi di contenuto informativo professionale, e quindi lesivi del decoro e della dignità professionale”. “... diversa questione dal diritto a poter fare pubblicità informativa della propria attività professionale è quella che le modalità ed il contenuto di tale pubblicità non possono ledere la dignità e il decoro professionale, in quanto i fatti lesivi di tali valori integrano l’illecito disciplinare”.
Fin qui la teoria (anche se confortata da dottrina e giurisprudenza). La pratica è cosa diversa: basta digitare su un motore di ricerca le parole “avvocato specializzato” per trovare una casistica amplissima e persino divertente in alcune manifestazioni auto elogiative. Ma la prassi, come si sa, non sempre coincide con la Legge...
(Altalex, 28 maggio 2013. Nota di Antonino Ciavola)

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