martedì, marzo 15, 2011

Non sono reato le espressioni pungenti fra avvocati, avversari in un processo.


La Cassazione sdogana le espressioni forti e pungenti fra avvocati, avversari in un processo.
Non commette ingiuria, infatti, il legale che definisce ridicolo il comportamento del collega: lo ha sancito la Suprema corte con la sentenza n. 10188 del 14 marzo 2011.
In sostanza la quinta sezione penale della Cassazione ha confermato l'assoluzione, pronunciata da un giudice di pace chiamato a valutare il comportamento e le frasi pungenti usate da un legale contro il suo avversario in un processo.
"Non ogni espressione che crea disappunto - scrive il Collegio - è, per ciò solo, offensiva, né offensiva è automaticamente una espressione forte o pungente".
A maggior ragione, conclude la Cassazione, in questo contesto. "Nel corso di un procedimento giudiziario, le parti sovente, per screditare la tesi avversaria, utilizzano frasi e parole che, in diverso contesto, difficilmente sarebbero tollerate. Ma l'ordinamento ritiene ciò perfettamente fisiologico, atteso che si è in presenza di una contesa aperta e radicale tra soggetti aventi interessi contrastanti e che esprimono tesi contrapposte. Definire "ridicolo" l'argomentare del proprio avversario è certamente un modo di esprimersi sgradevole e, forse, deontologicamente riprovevole, ma, non per questo integrante gli estremi dei delitti ex artt. 594 o 595 cp.
Parimenti, risentirsi per l'utilizzo (da parte di un collega) della espressione sopra riportata e replicare invocando l'ossequio ai dettami della buona educazione, della correttezza professionale e della gravitas, che la serietà della professione matura del proprio avversario processuale dovrebbero imporre, nemmeno integrano estremi di reato. Si tratta della normale (anche se accesa) dialettica tra persone, che sono portatrici di opposte posizioni.

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