giovedì, febbraio 26, 2015

Pintor li chiamava «la casta degli intoccabili…»

La corporazione dei magistrati italiani, impegnata oggi a divincolarsi dai lacci di una pur flebile futura responsabilità per le proprie azioni, è decisamente sopravvalutata.
Da buon marxista che aveva in odio la giustizia di classe, la ipervalutava Luigi Pintor, che nel famoso corsivo “I Mostri” qualche decennio fa la dipingeva come «l’immagine stessa del privilegio e dell’arbitrio», la casta degli “intoccabili”.
E le dava la dignità di soggetto politico (pur da rimettere al suo posto), il presidente Francesco Cossiga, il primo a capire quel che stava succedendo nei primi anni Novanta in Italia: la progressiva trasformazione dell’ordine giudiziario in potere. Un potere con la pretesa di svolgere una funzione morale, salvifica dell’intera società.
Ma meritano i magistrati l’immagine che di loro si è costruita negli ultimi decenni? Sono un esercito “in lotta” contro le mafie e i delitti, o semplicemente una categoria di burocrati che troppo spesso si comportano come piccoli impiegati preoccupati per il proprio status? Oggi è chiaro che la corporazione è stata sopravvalutata.
Non tanto per una sua intrinseca reale forza, quanto per la debolezza del potere politico, che prima si è suicidato abolendo l’immunità parlamentare (unico contrappeso all’autonomia e indipendenza della magistratura), poi ha sottovalutato la potenza del tintinnar di manette. Perché i magistrati, come scrisse allora Pintor, «dispongono del più illecito dei poteri, quello sulla libertà altrui».
E quelli di loro che più l’hanno usato a piene mani, si sono in seguito fiondati nell’agone politico, pensando di poter continuare a svolgere lo stesso ruolo, senza capire che, privati del potere di manette, il potere non l’avevano più. Basterebbero gli esempi dei vari Di Pietro, Ingroia, De Magistris per capire quale sia la dimensione reale, il peso specifico, intellettuale e professionale, della corporazione.
Ma quel che è successo nell’ultimo anno, con un premier che, pur non mostrando grande coraggio sul piano delle riforme, ha avuto comunque la spavalderia di dire “brr che paura” davanti allo spettro di uno sciopero delle toghe, è l’impietosa fotografia di una categoria più concentrata su se stessa che sulle grandi questioni della legalità.
Sono tre le immagini su cui finalmente il “re” è apparso nudo, in vera crisi di nervi.
Le vacanze, prima di tutto. Ogni cittadino sa che se ha l’occasione di entrare in un qualunque palazzo di giustizia dopo le tre del pomeriggio, lo trova pressoché deserto.
Ma forse i cittadini non sapevano che i magistrati godono di 51 giorni di ferie ogni anno. E, in un’epoca gonfia di moralismi e invidie sociali come l’attuale, la notizia ha destato scandalo, e ancor di più ha infastidito l’opinione pubblica la caciara che le toghe hanno messo in piedi contro la riduzione delle loro vacanze ipotizzata dal governo Renzi.
Gli “intoccabili” si sono ribellati come se fossero stati morsi dalla tarantola. E non osiamo pensare alla reazione che avrebbero se qualcuno ipotizzasse di ritoccare i loro stipendi. Ma a questo rimedierebbe, come ha già fatto per le alte cariche, la Corte Costituzionale.
Non a caso composta di magistrati. Se sulle ferie abbiamo assistito a una battaglia alquanto singolare, perché pareva la rivendicazione di un gruppo impiegatizio che però protestava con il tono di un soggetto abituato al comando, la situazione si è fatta ancor più paradossale quando, come in questi giorni, qualcuno ha detto “chi rompe paga”.
Nessun governo, nessun parlamento è riuscito finora ad applicare realmente il risultato di quel referendum sulla responsabilità civile dei magistrati che nel 1987 fu approvato con il 90% dei sì.
Non c’è riuscito un bravo ministro come Vassalli, che ha ceduto subito sull’ipotesi di responsabilità diretta (paga lo Stato) e su quel filtro di ammissibilità del ricorso del cittadino che ha reso l’intera legge inutile.
La corporazione vorrebbe oggi che le cose restassero così, cioè vorrebbe non pagare mai per i propri errori. Piace ad esempio che tutte le toghe le quali, in veste di accusatori o di giudici, hanno creato il “caso Tortora” e mille altri, non solo non paghino l’errore e le malefatte, ma che abbiano placidamente scalato per via burocratica i vertici della categoria.
Carriere intoccabili e intoccate. Per la verità la riforma di oggi sulla responsabilità civile è di una timidezza da far arrossire.
Ma la corporazione dei sopravvalutati si mostra ugualmente disperata. Proviamo a rimbalzare una loro abituale obiezione: se non avete magagne da nascondere, che paura avete? Se fate il vostro dovere, perché temete che chi sbaglia paghi?
La terza foglia di fico dietro la quale si nasconde la debolezza della corporazione è il tema della prescrizione dei reati. Un altro punto di rivendicazione sempre attuale.
È ovvio che un processo non può durare in eterno, è questione di rispetto per la vittima come per l’imputato. Ma i magistrati – in questo dimostrandosi veramente piccoli piccoli – non vorrebbero termini.
Preferiscono prendersela comoda. E quando 200.000 reati all’anno non hanno un responsabile perché è scattata la prescrizione, i magistrati si affrettano a dire che è colpa di qualcun altro. E che quindi bisogna allungare i termini.
Ma i cittadini lo sanno che il 70% dei reati si prescrive nel corso delle indagini preliminari, cioè quando il Pm e il Gip sono i domini dell’inchiesta e gli unici responsabili del ritardo? Vogliamo fare un referendum?
Questi sono i temi che scaldano i cuori della corporazione dei sopravvalutati: la carriera, le vacanze, lo stipendio, la produttività del loro lavoro. E il presidente Mattarella dice che non devono essere burocrati? Ma quella è la loro pelle…

Tratto dal sito: ilgarantista.it

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