L’assoluzione in secondo grado di Silvio Berlusconi può essere commentata, come sta accadendo, in mille modi. Quello meno utile mi parrebbe l’assestarsi sul luogo comune che rammenta il rispetto delle sentenze. Di tutte le sentenze e non solo di quelle che piacciono. Perché il problema non è formale. È assolutamente di sostanza.
Lo sintetizzo nella seguente affermazione: il sistema giudiziario è a pezzi. Non solo non funziona, ma non può funzionare, strutturato com’è su barocchismi superati e su di una cultura dello Stato di diritto oramai evanescente.
L’azione penale è obbligatoria, dice la Costituzione. Dunque il pubblico ministero, di fronte a ciò che ritiene sia, o che possa rivelarsi, un reato, deve procedere.
Usando la violenza della legge anche nei confronti di chi, sempre secondo la legge, è presunto non colpevole. Giuridicamente non fa una piega. Ma non è più accettato.
La giustizia che deve infliggere sofferenze prima di capire se queste sono giustificate da un’innegabile violazione della legge non funziona in una società che non accetta il comando come espressione di autorità.
La percezione del comando oggi è politica. E la politica subisce troppe ricadute da una decisione giudiziaria per non delegittimarla. Sempre e comunque.
La magistratura costituisce un ordine autonomo indipendente da ogni altro potere.
Certo, ma l’indipendenza percepita come libertà dalla regola, come potere di fare tutto, quale che sia l’esattezza storica di una scelta, non può funzionare quando si pretende che tutto risponda a un principio di responsabilità e, soprattutto, di non irreparabilità del danno. Non è accettato il danno, inflitto pur legittimamente ma prima che tutto il controllo processuale sia stato effettuato.
Il Consiglio superiore governa i giudici. Quando è capace di farlo. Quando la sua forza morale e professionale gli consente di essere «altro» rispetto agli interessi particolari che incontra.
Quando la sua funzione costituzionale si fonda su una effettiva autorevolezza politica. Non governa quando si paralizza sulla incapacità di decidere. Il presidente della Repubblica è il presidente, vero ed effettivo, del Consiglio. La sua funzione dovrebbe essere messa, anzitutto dai magistrati, al riparo dallo scontro politico sulla giustizia. Diversamente essa è sprecata. E indebolita.
I magistrati italiani hanno sbagliato molto. Hanno adoperato la vicenda che riguardava la persona di Silvio Berlusconi per difendere il sistema come è. Senza preoccuparsi del suo evidente invecchiamento.
Hanno continuato a correre dietro a parole d’ordine come «unicità delle carriere», senza domandarsi quanto oggi è, nei fatti, già separato il pm dal giudice; e «libertà nell’interpretazione della legge e nell’accertamento dei fatti del processo» senza domandarsi come introdurre, pretendere e applicare, essi per primi, effettivi controlli sulla loro quotidiana professionalità.
Perché solo una professionalità assoluta, impeccabile, verificabile dentro e fuori il processo giustifica un potere così grande presso un’opinione pubblica confusa, sconcertata da troppi pretesti.
L’autoriforma dei magistrati è fallita. Rifiutata da corporazioni fortissime, per le quali la dirigenza di un ufficio è un beneficio canonico, e l’indagine è un orticello concluso che deve dare frutto al suo unico coltivatore; e per le quali la difficilissima questione morale della magistratura deve essere messa da parte, perché è la politica a essere corrotta.
A me pare sia questo un punto di non ritorno. La giustizia deve essere affrontata come grande problema di democrazia del diritto. Dunque dalla politica. Quella che il Paese si sceglie. E alla quale nessuno può fare l’esame del sangue.
La politica deve assumere la riforma delle giustizia come inizio del rinnovamento dello Stato, come capo della matassa istituzionale da sbrogliare.
E deve porre come obiettivo del cambiamento la credibilità delle decisioni in genere. Non la loro esattezza. La credibilità. Che implica un esercizio mite e controllato della forza. E processi, civili e penali, comprensibili.
Semplici quanto è possibile. Processi che dicano subito come il magistrato si è regolato. Rendano univoca la ragione delle sue scelte.
E consentano una verifica trasparente della professionalità che ha impiegato, o di quella che ha dimenticato.
Giuseppe Maria Berruti
Presidente sezione di Cassazione
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