sabato, febbraio 28, 2015

Urge chiusura immediata del supermercato delle correnti togate.

Roma febbraio 28, 2015 - Il ministro della Giustizia si chiama Andrea Orlando, ma purtroppo non ha il crisma del paladino. Sulle correnti giudiziarie, per esempio, nel suo primo anno da guardasigilli si è lasciato scappare appena poche parole.
Mesi fa lo si è sentito ventilare «una riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura che diluisca il peso delle correnti».
Poi, di recente, ha cambiato idea: «Eliminare le correnti è un errore».
Eppure le correnti sono centrali, nel disastro della giustizia italiana. Non soltanto perché, com’è del tutto evidente, è assurdo che un magistrato inquirente o un giudice, cui è proibito per legge iscriversi a un partito, possano avere una connotazione politica di parte.
Ma anche perché le correnti governano il Csm, che è l’organo costituzionale cui spetta il doppio, delicatissimo compito di amministrare le carriere dei circa 9 mila magistrati.
È il Csm che decide trasferimenti e promozioni negli uffici più importanti (es.: vertici delle procure), ma anche le sanzioni. Ed è esattamente lì, tra il bastone e la carota del Csm, che inizia il disastro.
Vediamo di scomporre il meccanismo. Le correnti sono grosso modo quattro.
Due sono di sinistra: Magistratura democratica, nata nel 1964 all’ombra del Pci, oggi genericamente di centrosinistra; e Movimento per la giustizia, che nasce come cartello elettorale tra due gruppi di sinistra, i Verdi e Articolo 3.
Le altre due sono genericamente centriste e maggioritarie: Unità per la Costituzione e Magistratura indipendente.
Un magistrato che decida di stare fuori da uno di questi “partiti” è in partenza svantaggiato.
Certo, farà carriera, visto che grazie a due leggi del 1966 e del 1973 è automatica: chiunque passi l’esame di Stato sa in partenza che gli basterà sopravvivere qualche decennio per ottenere lo stipendio di un presidente di Corte di cassazione. Ma non ne avrà certamente il ruolo.
Perché il suo nome non entrerà mai nel mercato delle vacche che le correnti celebrano nel Csm: io voto il tuo candidato a quel certo ufficio, se però tu voti il mio per quell’altro; io aiuto il tuo magistrato a non essere colpito dalla punizione (che magari merita), ma ovviamente tu aiuti il mio.
Le trattative sono quotidiane, serrate, frequentissime: immaginatevi che quest’anno il Csm dovrà fare 483 nomine ai vertici degli uffici giudiziari, 284 per incarichi direttivi e 199 per incarichi semidirettivi. Sarà un supermercato.
Interdetti? Stupiti? Perplessi? Sbagliate. Perché è anche peggio di quel che sembra.
Un onesto giudice lombardo, un “senza corrente” che tiene al suo anonimato come alla vita, spiega che questo scambismo correntizio ha effetti osceni sulla stessa amministrazione della giustizia. E la storia che racconta è terrorizzante.
Prendiamo un certo pubblico ministero, un uomo di fama impegnato a sostenere l’accusa in un importante procedimento davanti a un certo giudice o a una certa corte. Mettiamo che il pm sia della corrente A, e il giudice appartenga alla corrente B.
Per mesi la cronaca giudiziaria ha celebrato l’attività del magistrato inquirente, ed ecco che si avvicina la sentenza. Il pm tiene al risultato, com’è giusto. Ed è allora che parte un gioco sommerso di pressioni, segnalazioni, intercessioni.
Accade perfino che delegazioni di corrente si spingano a contattare il giudice. Gli viene spiegato che la corrente A è fondamentale per ottenere una certa promozione che la corrente B ha chiesto per un suo magistrato.
E gli si fa capire che, se la sentenza sarà negativa per il pm, è probabile che al Csm i suoi amici di A non saranno molto disponibili ad allinearsi. Ovviamente il giudice è libero di agire come crede.
Ma siete convinti sia sempre facile dire no alla corrente cui hai affidato il tuo destino professionale? Meditate, gente, meditate.
E mediti soprattutto il ministro Orlando.

Maurizio Tortorella

Tratto dal sito: www.tempi.it

giovedì, febbraio 26, 2015

Pintor li chiamava «la casta degli intoccabili…»

La corporazione dei magistrati italiani, impegnata oggi a divincolarsi dai lacci di una pur flebile futura responsabilità per le proprie azioni, è decisamente sopravvalutata.
Da buon marxista che aveva in odio la giustizia di classe, la ipervalutava Luigi Pintor, che nel famoso corsivo “I Mostri” qualche decennio fa la dipingeva come «l’immagine stessa del privilegio e dell’arbitrio», la casta degli “intoccabili”.
E le dava la dignità di soggetto politico (pur da rimettere al suo posto), il presidente Francesco Cossiga, il primo a capire quel che stava succedendo nei primi anni Novanta in Italia: la progressiva trasformazione dell’ordine giudiziario in potere. Un potere con la pretesa di svolgere una funzione morale, salvifica dell’intera società.
Ma meritano i magistrati l’immagine che di loro si è costruita negli ultimi decenni? Sono un esercito “in lotta” contro le mafie e i delitti, o semplicemente una categoria di burocrati che troppo spesso si comportano come piccoli impiegati preoccupati per il proprio status? Oggi è chiaro che la corporazione è stata sopravvalutata.
Non tanto per una sua intrinseca reale forza, quanto per la debolezza del potere politico, che prima si è suicidato abolendo l’immunità parlamentare (unico contrappeso all’autonomia e indipendenza della magistratura), poi ha sottovalutato la potenza del tintinnar di manette. Perché i magistrati, come scrisse allora Pintor, «dispongono del più illecito dei poteri, quello sulla libertà altrui».
E quelli di loro che più l’hanno usato a piene mani, si sono in seguito fiondati nell’agone politico, pensando di poter continuare a svolgere lo stesso ruolo, senza capire che, privati del potere di manette, il potere non l’avevano più. Basterebbero gli esempi dei vari Di Pietro, Ingroia, De Magistris per capire quale sia la dimensione reale, il peso specifico, intellettuale e professionale, della corporazione.
Ma quel che è successo nell’ultimo anno, con un premier che, pur non mostrando grande coraggio sul piano delle riforme, ha avuto comunque la spavalderia di dire “brr che paura” davanti allo spettro di uno sciopero delle toghe, è l’impietosa fotografia di una categoria più concentrata su se stessa che sulle grandi questioni della legalità.
Sono tre le immagini su cui finalmente il “re” è apparso nudo, in vera crisi di nervi.
Le vacanze, prima di tutto. Ogni cittadino sa che se ha l’occasione di entrare in un qualunque palazzo di giustizia dopo le tre del pomeriggio, lo trova pressoché deserto.
Ma forse i cittadini non sapevano che i magistrati godono di 51 giorni di ferie ogni anno. E, in un’epoca gonfia di moralismi e invidie sociali come l’attuale, la notizia ha destato scandalo, e ancor di più ha infastidito l’opinione pubblica la caciara che le toghe hanno messo in piedi contro la riduzione delle loro vacanze ipotizzata dal governo Renzi.
Gli “intoccabili” si sono ribellati come se fossero stati morsi dalla tarantola. E non osiamo pensare alla reazione che avrebbero se qualcuno ipotizzasse di ritoccare i loro stipendi. Ma a questo rimedierebbe, come ha già fatto per le alte cariche, la Corte Costituzionale.
Non a caso composta di magistrati. Se sulle ferie abbiamo assistito a una battaglia alquanto singolare, perché pareva la rivendicazione di un gruppo impiegatizio che però protestava con il tono di un soggetto abituato al comando, la situazione si è fatta ancor più paradossale quando, come in questi giorni, qualcuno ha detto “chi rompe paga”.
Nessun governo, nessun parlamento è riuscito finora ad applicare realmente il risultato di quel referendum sulla responsabilità civile dei magistrati che nel 1987 fu approvato con il 90% dei sì.
Non c’è riuscito un bravo ministro come Vassalli, che ha ceduto subito sull’ipotesi di responsabilità diretta (paga lo Stato) e su quel filtro di ammissibilità del ricorso del cittadino che ha reso l’intera legge inutile.
La corporazione vorrebbe oggi che le cose restassero così, cioè vorrebbe non pagare mai per i propri errori. Piace ad esempio che tutte le toghe le quali, in veste di accusatori o di giudici, hanno creato il “caso Tortora” e mille altri, non solo non paghino l’errore e le malefatte, ma che abbiano placidamente scalato per via burocratica i vertici della categoria.
Carriere intoccabili e intoccate. Per la verità la riforma di oggi sulla responsabilità civile è di una timidezza da far arrossire.
Ma la corporazione dei sopravvalutati si mostra ugualmente disperata. Proviamo a rimbalzare una loro abituale obiezione: se non avete magagne da nascondere, che paura avete? Se fate il vostro dovere, perché temete che chi sbaglia paghi?
La terza foglia di fico dietro la quale si nasconde la debolezza della corporazione è il tema della prescrizione dei reati. Un altro punto di rivendicazione sempre attuale.
È ovvio che un processo non può durare in eterno, è questione di rispetto per la vittima come per l’imputato. Ma i magistrati – in questo dimostrandosi veramente piccoli piccoli – non vorrebbero termini.
Preferiscono prendersela comoda. E quando 200.000 reati all’anno non hanno un responsabile perché è scattata la prescrizione, i magistrati si affrettano a dire che è colpa di qualcun altro. E che quindi bisogna allungare i termini.
Ma i cittadini lo sanno che il 70% dei reati si prescrive nel corso delle indagini preliminari, cioè quando il Pm e il Gip sono i domini dell’inchiesta e gli unici responsabili del ritardo? Vogliamo fare un referendum?
Questi sono i temi che scaldano i cuori della corporazione dei sopravvalutati: la carriera, le vacanze, lo stipendio, la produttività del loro lavoro. E il presidente Mattarella dice che non devono essere burocrati? Ma quella è la loro pelle…

Tratto dal sito: ilgarantista.it

sabato, febbraio 21, 2015

Perché non posso essere cortese..............

Esiste anche un’etica della cortesia. Posso chiedere la cortesia di accompagnarmi in centro in automobile, ad un amico che già deve andare in città, anche se non proprio in centro.
Diverso sarebbe se gli chiedessi di alzarsi all’alba apposta per accompagnare me in aeroporto, e ciò nonostante io possa andare in aeroporto usando un treno che passa vicino a casa mia, che posso prendere comodamente solo alzandomi mezz’ora prima.
Il principio generale può essere approssimativamente formulato così: non è moralmente accettabile la richiesta di una cortesia, quando il sacrificio che si chiede è sproporzionato rispetto al beneficio che se ne trae. Sembra che a molti magistrati il processo civile telematico risulti indigesto addirittura più che agli avvocati.
Sono abituati a leggere gli atti su carta; leggerli su video gli dà noia; e anche stampare gli atti per poterli leggere su carta sembra sacrificio eccessivo.
Perciò molti chiedono agli avvocati di fargli avere su carta gli atti che legittimamente gli avvocati possono depositare in forma digitale. E’ la cosiddetta copia di cortesia.
Ti chiedo la cortesia di stamparmi l’atto, anche se non sei tenuto, perché io sono abituato a leggere su carta e leggere su video mi dà noia.
La richiesta, per un certo tempo, è stata formulata di volta in volta; ma in più di un foro è stata formalizzata in termini generali ed accettata supinamente da qualche ordine degli avvocati, tanto da essere trasfusa nei cosiddetti protocolli, regole concordate tra magistrati e avvocati per far funzionare meglio la giustizia.
Pare che addirittura un tribunale di una capitale economica del Paese abbia ritenuto di poter sanzionare il mancato rispetto di tale protocollo con una condanna per lite temeraria.
Decisione insostenibile in diritto ancora meno che sotto altri profili. Sintomo di inadeguatezza del giudicante ad assumere il delicato ruolo. Io sono un essere umano e tendo a simpatizzare con gli altri esseri umani.
Capisco che a tutti piacciano le comodità. Piacciono anche a me. Capisco che per alcuni sia più comodo leggere su carta anziché a video.
Non mi sorprende né mi scandalizza che molti magistrati abbiano questa propensione. Anche per me è stato così, per molto tempo, poi mi sono adeguato.
Se però desidero leggere un atto su carta, uso una stampante laser, pagata con i miei soldi, per stampare gli atti su carta, pagata con i miei soldi.
Credo di non pretendere troppo se mi aspetto che i magistrati amanti della carta seguano il mio esempio. Prima di chiedere la cortesia che sia io a fornirgli la copia degli atti su carta, pensino un attimo al sacrificio che mi stanno chiedendo, lo confrontino col beneficio che ne traggono, e si chiedano se sia moralmente legittima la loro richiesta.
Per me stampare la copia degli atti (che ho già depositato telematicamente, attraverso un software pagato da me) e poi depositarla in cancelleria significa continuare a fare il lavoro che facevo prima, e in più dover fare il nuovo lavoro del deposito telematico.
Non solo non traggo alcun vantaggio dal processo civile telematico, ma per me esso costituisce addirittura un aggravio.
Il magistrato può comodamente stamparsi gli atti con una stampante economica pagata da lui/lei, spendendo pochi minuti del suo tempo e poche decine di euro al mese del suo stipendio magari non lauto, ma certamente decoroso.
Dovrebbe porsi lo scrupolo di chiedere a me la cortesia di spendere quei soldi e di impiegare quel tempo, considerato che io, a differenza di lui/lei, ho visto il mio reddito dimezzato nel giro di pochi anni, nel corso dei quali ho dovuto lavorare sempre di più per guadagnare sempre di meno.
Perciò non depositerò alcuna copia di cortesia. Spero che il mio ordine professionale non sottoscriva alcun protocollo che mi impegni a tale deposito.
Se dovesse farlo, non rispetterò tale protocollo.

Avv. Agostino Mario Mela

DDL CONCORRENZA, L’OUA SI RIVOLGE AL PREMIER RENZI: ROTTAMIAMO I “REGALI” ALLE ASSICURAZIONI SULLA RC AUTO, TUTELIAMO INNANZITUTTO I CITTADINI.

Forte preoccupazione dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura sui provvedimenti in materia di Rc auto e sulle professioni, anticipati dai mezzi di comunicazione, e che dovrebbero essere contenuti nella bozza di ddl sulla concorrenza all’ordine del giorno del Cdm di oggi. Per l’Oua con questi interventi c’è il rischio di un’esplosione del contenzioso.
Non solo: per la rappresentanza politica forense tutta la materia della responsabilità civile e tutte le modifiche sul processo civile debbono essere di competenza del ministero della Giustizia.
Per Mirella Casiello, presidente Oua, «le norme che incidono sulla responsabilità civile, non possono, e non devono, essere gestite dai tecnici del ministero dello sviluppo economico, rischiando così di neutralizzare gli effetti benefici della negoziazione assistita, con prevedibile esplosione del contenzioso.Tali interventi sul processo civile sembrano “dettati” dalle compagnie assicuratrici e sono privi di alcun confronto con gli operatori del diritto».
Per fare solo un esempio, è la denuncia dell'Oua, viene “resuscitata” la delega al governo per reintrodurre, per atto amministrativo, le tabelle per la liquidazione dei danni gravi (ex 138), cioè per ridurre i valori risarcitori determinati dalle tabelle di Milano che la Cassazione ha stabilito essere il livello della equità risarcitoria.
Una marcia indietro su un provvedimento odioso, già a suo tempo respinto dall’opinione pubblica, che danneggia le vittime degli incidenti.
L'Oua ritiene che le norme sul danno alla persona e sulla responsabilità civile debbano necessariamente vedere l’intervento del Ministero della Giustizia.
Molto si è già fatto per ridurre il contenzioso, anche mediante l’introduzione della negoziazione assistita quale condizione di proponibilità della domanda in RC auto e un simile confuso e sovrapposto intervento sulla materia, che ricalca pedissequamente l’art. 8 DL 145 Destinazione Italia, già bocciato dalla Commissione Giustizia della Camera e lasciato decadere, non è francamente ammissibile, quale che siano le logiche che lo abbiano ispirato.
«Infine - conclude Casiello - crediamo che analogo metodo si debba usare per gli ipotizzati interventi sulle professioni: divieto di patto quota lite e soci di capitale nelle società tra professionisti, stante la delicatezza e peculiarità delle materie, devono essere materie di esclusiva competenza del ministero di Giustizia. Ieri sera al Ministro Orlando abbiamo chiesto di proseguire sulla giusta strada del confronto con l’avvocatura, senza rischiare di deragliare dai binari delle riforme condivise a causa delle ingerenze di altri dicasteri».
Roma, 20 febbraio 2015

mercoledì, febbraio 18, 2015

“L’ABERRANTE APPLICAZIONE DELL’ART. 96 C.P.C.” (nota a Trib. Milano, sez. II, decreto 15.1.2015)

1. La fattispecie. - Aberrante. Non vi sono altri aggettivi che possano essere adoperati dinanzi ad un cotale decreto, reso a firma del collegio composto dai giudici Bruno (presidente), D’Aquino (relatore), Mammone (giudice) della seconda sezione del Tribunale di Milano. Iniziamo col fare i nomi, - dunque con l’attribuire la paternità del provvedimento dirompente e assolutamente inedito nel panorama giurisprudenziale -, dei giudici.
 Il contenuto del decreto nel merito non ci interessa. Potrà essere ineccepibile o pur anche brillante e straordinario. In tal caso il plauso non mancherebbe certo da parte nostra. Non ci interessa poiché l’attenzione non può che cadere sulla parte in cui il collegio giunge a scrivere che “Va osservato come parte opponente abbia depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d’Intesa tra il Tribunale di Milano e l’Ordine degli avvocati di Milano del 26.06.2014, rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese. Tale circostanza comporta l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. come da dispositivo.” dunque poi giungendo a condannare e liquidare in ragione di ciò € 5.000.
2. Il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. - Come noto l'art. 96 del codice di procedura civile è intitolato "Responsabilità aggravata" ed è appropriatamente – per veste nominale - inserito nel Capo IV "Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali", del Titolo III "Delle parti e dei difensori", del Primo Libro, dedicato alle disposizioni generali, del codice di rito.
L'articolo è composto da ben tre commi e così recita, ora a seguito della recente modifica avvenuta con la novella del codice di rito ex l. 18.6.2009, n. 69 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” che ha appunto aggiunto il terzo comma, non senza creare ambiguità e apparenti distonie con l’intera struttura della norma, di rito e sostanziale.
Recita difatti il terzo comma che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.” (art. 96, III co. c.p.c.).
Il terzo comma ha certamente rivoluzionato l’applicazione di tale forma di responsabilità, imponendo secondo l’opinione oramai prevalente, un modello quale quello punitivo non proprio della r.c. italiana ma appartenente ad altri sistemi giuridici, connotando la cultura anglo-americana.
La dottrina e la giurisprudenza oramai si soffermano lungamente su un istituto di straordinaria importanza, rafforzato ovviamente in chiave deflativa prima dalla giurisprudenza e appunto da ultimo nel 2009 dal legislatore, a fronte di svariati casi di abuso processuale che, come correttamente ricordato oramai a memoria dalle corti, costituiscono non solo un grave vulnus alla parte processuale ma pure alla collettività intera, aumentando il numero dei processi pendenti sino ad indebolire l’intero sistema giurisdizionale e il diritto alla difesa ex art. 24 Cost.
E sin qua siamo tutti d’accordo: l’abuso processuale va puntualmente sanzionato, punito, risarcito. Appunto, l’abuso processuale, non la lesa maestà. Ed ancor meno la supposta lesa maestà.
3. Le critiche al decreto. - Non è qua il caso di addentrarsi nei complessi meandri della figura che partecipa alla responsabilità civile, poiché sarebbe ultroneo rispetto alle severe critiche che esporremo.
Critiche non certo sulla opportunità o meno della scelta del collegio di giungere ad applicare ed a riconoscere il danno punitivo in una fattispecie caratterizzata dall’aver “depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d’Intesa [così] rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese.”.
 Chi scrive ritiene di poter conoscere, perlomeno a sufficienza l’art. 96 c.p.c. avendo dedicato ad esso quasi una intera monografia (Mazzola M.A., Responsabilità processuale, Utet, Torino, 2013, pp. 804) ed ancor prima analogamente una più breve monografia (Mazzola M.A., Responsabilità processuale e danno da lite temeraria, Giuffrè, Milano, 2010).
Muoverò dunque critiche non per sentito dire ma perché il collegio applica assolutamente impropriamente l’art. 96 c.p.c., censurando una condotta paraprocessuale (dunque si badi bene, neppure processuale, né tanto meno sostanziale) che neppure avrebbe dovuto mai essere sanzionata.
Mai. Ed è assai grave averlo fatto.
Partirò da lontano, così non potrò essere accusato di avere acredine verso i giudici (che hanno tutto il mio rispetto ma quando si mostrano diligenti, la mia venerazione quando si mostrano pure brillanti e coraggiosi, le mie censure al contrario).
I presupposti di tale decreto affondano nelle responsabilità e nelle condotte e scelte dell’avvocatura. Si avete letto bene: l’avvocatura è la mandante morale di un tale decreto.
Quell’avvocatura che in questi decenni si è resa servile, pregna di piaggeria e di sindrome da scendiletto verso la magistratura, accettandone qualsivoglia pretesa, legittima o illegittima che fosse, dimenticando ed ignorando come nelle corti di giustizia debba vigere sempre e comunque la parità tra giudicante e difesa.
Parità che pretende pari dignità e pari rispetto.
Invece l’avvocatura ha nei decenni, anche grazie alle rappresentanze istituzionali e politiche ceduto tale dignità, accettando di svolgere le funzioni di cancelliere nei processi (perché?), di agevolare i magistrati nelle loro funzioni (dotandoli via via di praticanti e scribacchini), non ultimo di integrare le lacune del Processo Civile Telematico (leggasi Milano ed altri ordini, che comunque hanno svolto pure un ruolo prezioso nello sviluppo ed avvio del PCT) sino a siglare “protocolli d’intesa” tali da vanificare la ratio legis che ha condotto (faticosamente, schizofrenicamente) il legislatore a realizzare (ancora incompiutamente peraltro) il PCT.
Invero, il PCT (che ad oggi ci è costato, dunque alla collettività intera, circa 4 miliardi di €uro in 10 anni, quando bastava indire una gara di appalto ed auspicare che intervenisse Microsoft et similia, e non avremmo il mediocre risultato attuale) è nato per spostare, semplificare, agevolare, snellire tutto il processo civile dal cartaceo al telematico, così avendo a disposizione maggiori risorse (umane e economiche) per il funzionamento dei processi.
Uno di questi principi è dunque “niente carta, si alla gestione informatica del processo”, se vogliamo così anche marginalmente con un minore impatto ambientale.
Si aggiunga come in questi anni il Contributo Unificato sia esponenzialmente aumentato, in chiave deflativa e come strumento per risanare le casse dello Stato fallito, così da assicurare ampie risorse economiche al Ministero di Giustizia, che riutilizza solo in minima parte al proprio interno!
Non paghi di tutto ciò gli Ordini hanno incredibilmente pensato di offrire ulteriormente i propri servigi siglando con i tribunali di riferimento un gentlemen agreement (ergo un protocollo) per garantire ai magistrati (oltre agli adempimenti del PCT che gravano sugli avvocati) pure una “copia cortesia cartacea”, come se gli stessi magistrati:
a) non siano in grado di leggere gli atti telematici;
b) non siano in grado di farsene stampare una copia dalla cancelleria;
c) non siano in grado, in subordine, di stamparsene una copia in proprio.
Gli Ordini – i tantissimi Ordini, posto che al riguardo si è innescato un virtuosismo assolutamente negativo - così hanno sbagliato perlomeno tre volte:
a) la prima perché hanno fatto rientrare dalla finestra ciò che il PCT ha inteso debellare;
b) la seconda perché hanno gravato gli avvocati di un ulteriore adempimento;
c) la terza perché pretendono dagli avvocati che continuino a sostituirsi agli inadempimenti della cancelleria (e/o in subordine dei magistrati).
Tutto ciò ignorando come il Contributo Unificato, aumentato esponenzialmente, sia tale da poter soddisfare e sfamare qualsivoglia copia cartacea a spese del Ministero della Giustizia, addirittura oggi forse in filigrana d’oro (o in pelle umana, parafrasando note battute fantozziane).
Questa solo la premessa.
In punto di puro diritto il decreto è parimenti aberrante.
Lo è perchè punire la condotta di aver “depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d’Intesa [così] rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese.” nulla centra con l’art. 96 c.p.c..
Infatti la condotta censurata e punita non è una condotta:
(1) punibile, perché non è coperta da alcuna una fonte normativa e/o regolamentare, atteso che il protocollo è un mero gentlemen agreement che per cortesia suggerisce alle parti adempimenti e non certo doveri e che tutte le molteplici fonti sul PCT nulla prescrivono al riguardo (e ci mancherebbe altro!);
(2) è una condotta comunque paraprocessuale, poiché attinente ad una modalità di deposito degli atti difensivi e non alla difesa vera e propria;
(3) non costituisce alcun abuso del processo né tanto meno danneggia la parte processuale avversa;
(4) in ogni caso, checché ne scriva il collegio, non rende certo “più gravoso per il collegio esaminarne le difese” (son privi i giudici di cancelleria? Son soggetti privi di stampante e/o di manualità?);
(5) non ultimo, pur volendo ignorare le già dirimenti censure, investe una condotta squisitamente ed esclusivamente del difensore mentre l’art. 96 c.p.c. è diretta direttamente alla parte processuale.
Un tale decreto, in tale parte lo si ripete, a mio avviso costituisce un gravissimo precedente, peraltro tale da connotare la responsabilità civile del magistrato nonché anche quella disciplinare, poiché spinge l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. su un versante non solo non voluto dal legislatore ma neppure immaginato.
Eppure di questi tempi, il legislatore freme dal desiderio di deflazionare qualsivoglia contenzioso giurisdizionale.
Il mio auspicio è che al riguardo intervenga duramente e immediatamente l’Organismo Unitario dell’Avvocatura ed anche sul versante istituzionale il Consiglio Nazionale Forense. Immediatamente per arginare un’aggressione alla dignità del diritto di difesa.
Inutile difatti ridondare la nostra veste costituzionale se poi al momento opportuno non siamo in grado di difenderla.
E di difenderci.

Avv. Mazzola Marcello Adriano

Il Consiglio di Stato accoglie l’istanza cautelare, contro il regolamento elettorale dei COA.

REPUBBLICA ITALIANA 
 Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale 
(Sezione Quarta) 
ha pronunciato la presente 
 ORDINANZA 
sul ricorso numero di registro generale 552 del 2015, proposto da:
ANAI Associazione nazionale avvocati italiani, Maurizio De Tilla, Giulio Prosperetti, Isabella Maria Stoppani, Antonio Leonardo Fraioli, Eugenio Prosperetti, Giulio Pascali, Olga Simeoni, Roberto Zazza, Pietro Pozzaglia, Alessandro Graziani, Walter Palombi, Nilia Aversa, Flonja Shuli, Cristina Bellini, Maria Grazia Bosco, Elisabetta Silva, Antonio Finelli, Manlio Marino, Chiara Valcepina, Alessio Straniero, Silvia Belloni, Edilberto Giannini, Bruno Mario Caterina, Claudio Acampora, Roberto Renzella, Nicola Ferraro, Maria Andretta, Danilo Cerulli, Gilda Longino Lombardi, Caterina De Tilla, Andrea Esposito, Brunella Borgo, Nadia Giuseppina Carnevale, Maria Carmen Raffa, Francesco Attanasio, Maria Francesca Straticò, Daniela Di Sanzo, Vincenzo Mari, Elisabetta Verrina, Teresa Farciniti, Giancarlo Bria, Domenico Laghi, Giusy Aiello, Fanny Malomo, Mario Bellusci, Pompeo Niger, Angela Aversa, Rosalba Amato, Carmine Chimenti, rappresentati e difesi dagli avv. Giulio Prosperetti e Isabella Maria Stoppani, con domicilio eletto presso Isabella Maria Stoppani in Roma, via Brenta n. 2/A;
contro 
Ministero della giustizia, in persona del ministro legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso la stessa domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi n.12;
e con l’intervento di ad opponendum:
Ordine degli Avvocati di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. Luigi Mazzoncini e Francesca Sbrana, con domicilio eletto presso Francesca Sbrana in Roma, via Vittoria Colonna n. 40;
per la riforma dell’ ordinanza cautelare del T.A.R. del Lazio, sezione prima, n. 151/2015, resa tra le parti e concernente il regolamento sulle modalità di elezione dei componenti dei consigli degli ordini circondariali forensi
 Visto l’art. 62 cod. proc. amm;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
 Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia; Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado;
Viste le memorie difensive;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2015 il Cons. Diego Sabatino e uditi per le parti gli avvocati Prosperetti, Stoppani Sbrana, Lipani, per delega dell’avvocato Mazzoncini, Papa e l’avvocato dello Stato Verdiana Fedeli;
Considerato che, nei limiti della sommaria cognizione cautelare, appaiono condivisibili le censure che evidenziano il contrasto tra la disciplina dettata dalla legge n. 247 del 31 dicembre 2012 e il regolamento impugnato in merito alla tutela delle minoranze che, in un ente pubblico di carattere associativo, ben rifluiscono sui temi dell’imparzialità dell’amministrazione, di cui all’art. 97 comma 2 della Costituzione; 
Considerato che, proprio ai fini della tutela dei detti principi, pare praticabile un’interpretazione in cui il limite di voti di cui all’art. 28 comma 3 della citata legge sia da considerarsi insuperabile, ferma restando la possibilità di prevedere, entro l’evocato confine, modi di espressione delle preferenze ulteriori tese a salvaguardare le differenze di genere, come nel sistema già vagliato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 4 del 14 gennaio 2010; 
Considerato che le esigenze cautelari vantate dalle parti appellanti ben possono essere tutelate, anche in considerazione del diverso sviluppo delle fasi procedimentali nelle diverse sedi e delle già avvenute elezioni, sollecitando la decisione nel merito, a norma dell’art. 55 comma 10 del c.p.a.;
P.Q.M. 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
Accoglie l’appello (Ricorso numero: 552/2015) e, per l’effetto, in riforma dell’ordinanza impugnata, accoglie l’istanza cautelare in primo grado ai fini della sollecita fissazione dell’udienza di merito. Ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza sia trasmessa al Tar per la sollecita fissazione dell’udienza di merito ai sensi dell’art. 55, comma 10, cod. proc. amm.
Compensa integralmente tra le parti le spese della presente fase cautelare.
La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2015 con l’intervento dei magistrati: Giorgio Giaccardi, Presidente Diego Sabatino, Consigliere, Estensore Raffaele Potenza, Consigliere Andrea Migliozzi, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 18/02/2015

martedì, febbraio 10, 2015

Cassazione Civile : i requisiti del possesso "ad usucapionem".

"Per la configurabilità del possesso "ad usucapionem", è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo all'uopo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ``ius in re aliena" ( "ex plurimis" Cass. 9 agosto 2001 n.11000), un potere di fatto, corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, un’ indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all'inerzia del titolare del diritto (cfr. Cass. 11 maggio 1996 n. 4436. Cass. 13 dicembre 1994 n. 10652)".

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 11 dicembre 2014/4 febbraio 2015, n. 2043-Presidente Bianchini – Relatore Correnti